Eastern Drift

Creato il 25 maggio 2012 da Eraserhead
Metamorfosi completa che ha del sorprendente quella di Sharunas Bartas. L’ultima sua apparizione risale a qualche tempo fa con Seven Invisible Men (2005), un lavoro in linea con il cinema che ha sempre proposto e per chi scrive una delle migliori prove in assoluto del lituano. Cinque anni sono dunque passati, e tenendo presente la prolificità degli esordi, all’incirca un film ogni anno o due, un tale silenzio registico carica ulteriormente il periodo di inattività che si conclude nel 2010 con questo Indigène d’Eurasie, pellicola presentata al Festival di Berlino, che rappresenta un taglio nettissimo con quanto si era potuto vedere in passato.
Bartas ci mette la faccia perché è lui stesso ad impersonare il protagonista Gena, un trafficante di droga con due donne e parecchi problemi, ma allo stesso tempo si dimentica di mettersi dietro la mdp perché gira un film che, è meglio dirlo subito, delude su più fronti. Un cambiamento non si nega mai, soprattutto ad uno come lui che è dai primi anni ’90 che fa cinema; mutare notevolmente la propria poetica può essere anche un incentivo stimolante per rigenerarsi, in particolare se il credo filmico portato avanti fino a quel momento non concedeva nulla: testi stringati, uomini eterei, silenzi estatici, sottofondi di voci lontane. Bartas è sempre stato così, un’esperienza visiva che è difficile definire piacevole ma che nell’ostilità trova una cifra di elegante distinzione, arte consapevole delle proprie influenze, la Russia è vicina - lui si è laureato a Mosca -, e orgogliosamente ostinata alla distinzione.
Allora perché Eastern Drift si appiattisce al comune vedere con un noir di pressoché ordinaria amministrazione? Il cambiamento, pesante, c’è stato, ma non in meglio. Stupisce negativamente la banalità degli eventi che mancano di appeal, i traffici illeciti e malavitosi sono robe che non è che siano già viste, sono “soltanto” i rudimenti di un qualsiasi intreccio simil-thrilleresco dove manigoldi, prostitute, polizia e altre maschere non degne di nota calcano la scena.Detta così potrebbe sembrare che ogni film di tale categoria al giorno d’oggi risulti superfluo e derivativo, la questione non va messa in questi termini perché ad inficiare il giudizio conta il modo con cui vengono espressi gli argomenti; qui però anche sul versante illustrativo resta l’amaro in bocca perché di opere in cui si dipingono i tetri profili della criminalità ne escono a bizzeffe, e da uno come Bartas era lecito aspettarsi una proposta capace di ergersi nei confronti delle cornici routinarie. Invece no, non c’è una distinzione convincente, una sequenza, una scena, un plan ad impressionare nella visione. Se non fosse che nei crediti c’è quel nome lì si farebbe fatica a crederci.
Dispiace molto perché essere testimoni di una quasi resa, di un confluire nell’abituale, di una bandiera bianca autoriale da parte di uno degli sguardi europei più interessanti degli ultimi anni, fa male qui e soprattutto qui. La speranza è che sia stato un gioco, un esperimento, ma se al contrario si tratta di un nuovo corso allora l’umile suggerimento è di impegnarsi maggiormente. Perché Bartas, se vuole, sa essere grande. 

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