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"Il tempo e' ciò che impedisce alle cose di accadere simultaneamente". Sembra
un gioco di parole, sembra Jannacci. Eppure, l'affermazione del celebre fisico
americano John A. Wheeler (1911-2008) - studi di gravitazione quantistica;
ideazione del temine "buco nero"; compartecipazione al "Progetto Manhattan";
maieutica per allievi del calibro di Dick Feynman - e' talmente sottile e al
tempo di bella tempra da poter essere rubata e riadattata ai nostri più modesti
scopi, ovvero ragionare intorno ad un tipo come Clint Eastwood, che ha visto
crearsi attorno e dentro le valutazioni fatte su di lui nel corso dei decenni
una sorta di "distorsione" per cui tutto pare convergere in un presente tanto
indistinto quanto per lo più elogiativo. Ogni ragionamento coesistere con gli
altri, affastellandosi ma in apparenza non contraddicendosi, essendo appunto
l'unita' di misura presa quella della contemporaneità.
Il breve excursus condotto riguardo la collaborazione umana e artistica che ha
legato Eastwood a Don Siegel ben oltre il decennio utile alla realizzazione dei
loro cinque film assieme (Eastwood ha, tra l'altro, dedicato "Gli spietati"/"
The unforgiven", (1992), l'ultimo dei suoi "ritorni" al western, proprio a
Siegel e a Sergio Leone), non e' che uno degli specchi - magari il più celebre
- in cui si riflette l'ambivalenza di fondo che accompagna, ad oggi, una
carriera più che quarantennale, quasi senza soluzione di continuità passata -
ecco la "lunga" simultaneità sospetta - da, nel migliore dei casi, un
volenteroso sforzo, sebbene zavorrato da limiti evidenti, di ancorarsi ad un
"mainstream" con ogni probabilità anonimo ma passabile, a zonzo tra i generi
tipici del cinema USA - western, noir, guerra, generica "azione" - ad una
unanime condizione di "ultimo dei cineasti classici"...
Eastwood, californiano di San Francisco, nato nel maggio del '30, schiva
grazie anche ad una generosa complessione fisica - statura superiore al metro e
novanta, discreta abilita' negli sport, specie nel nuoto - la guerra di Corea.
Spezza la dipendenza da una famiglia raminga per necessita', inseguendo i
lavori più disparati e alla fine - come in tanti romanzi e in tante
sceneggiature - si ritrova ad Hollywood favorevolmente sorpreso dall'ingaggio
in una serie televisiva come "Rawhide", trasmessa per duecento e passa episodi
tra il '59 e il ''66, incentrata su un gruppo di cowboy alle prese con le più
diverse traversie sullo sfondo narrativo del trasferimento di una mandria che
ricorda nemmeno tanto alla lontana il leggendario "Il fiume rosso"/"Red river"
(1946) di H. Hawks, con J. Wayne e M. Clift.
Tale lunga gavetta, intervallata da alcune apparizioni sul grande schermo tra
cui la primissima - una delle non poche non accreditate - addirittura ne "La
vendetta del mostro"/"Revenge of the creature" (1955) del grande Jack Arnold,
seguito ideale de "Il mostro della Laguna Nera"/"Creature from the Black
Lagoon" (1954), sempre di Arnold e nemmeno a farlo apposta logo ufficiale del
nostro blog (wow !), orienta, a detta dello stesso Eastwood e non solo in campo
recitativo, gran parte della sfera dei suoi interessi e delle sue scelte
stilistiche future, al punto che e' logico supporre un progressivo e studiato
avvicinamento a quel tipo di personaggio (restando allo schermo) in grado di
esprimersi al meglio più con una serie limitata di gesti, con la postura del
corpo, con la modulazione dei silenzi, che con un profluvio di parole.
Il pensiero di Eastwood (compendiato di certo alla buona ma non stravolto),
rievocato per riannodare il filo delle proprie radici, contribuisce qui a
chiarire l'importanza di un apprendistato come strumento in cui le parti si
assemblano, funzionano o s'inceppano, in ogni caso si trasformano, sempre e
comunque nel tempo, portandosi dietro intuizioni e passi falsi, slanci
avventurosi e indolenze, azzardi e ripiegamenti.
La figura, questa si' oramai "classica", a cui siamo soliti sovrapporre quella
di Eastwood - ovvero il tipo solitario e in apparenza scostante, laconico
quanto irreprensibile e risoluto nel seguire e applicare un "suo" codice o un
codice al quale, senza enfasi o proclami ideologici, ha deciso di aderire;
dotato di un suo singolare senso dell'umorismo, usato spesso più come scudo che
come arma per farsi beffa del mondo; portavoce controllato di un semplice e
rude romanticismo - prende forma su quel sostrato già consegnato allo
stereotipo, a partite dalla lungimiranza di Leone che trasferisce il carattere
stilizzato da Kurosawa ne "La sfida del samurai"/"Yojimbo" (1961) con Toshiro
Mifune (un guerriero senza padrone, dal passato oscuro, scaltro e deciso nel
mettere uno contro l'altro i potenti di turno), in un contesto western e lo
attaglia alla fisionomia di Eastwood.
Film dopo film ("Impiccalo più in alto"/"Hang'em high" (1967) di Ted Post;
passando per "L'uomo dalla cravatta..."/"Coogan's bluff" (1968) e "Ispettore
Callaghan..."/"Dirty Harry" (1971) di Siegel, attraverso "Lo straniero senza
nome"/" High plains drifter" (1973), "Il texano..."/"The outlaw Josey Wales"
(1976), "Il cavaliere pallido"/"The pale rider" (1985), giù fino a "Gli
spietati"/"The unforgiven" (1992), tutti dello stesso Eastwood),
quest'"archetipo personalizzato" si delinea e si precisa: si spoglia via via
dei già esigui orpelli mitologici e divistici, si asciuga e, per certi versi,
si disarticola e quasi si disintegra davanti ai nostri occhi per raccontare ora
- e "Gli spietati" e' l'apogeo/de profundis di questo cammino - non più la
ribalderia e la prontezza astuta di un colpo di mano ma la stanchezza e il
disgusto. Non la dignità virile di una solitudine voluta e cercata ma la
sconfitta interiore di un isolamento dai contorni oramai autistici. E,
soprattutto, non l'illusione di un mondo di valori per quanto astratti o
cocciutamente inseguiti (forse così tenacemente desiderati proprio perché
sempre irrepereribili) - la lealtà, l'onore, la compostezza e il coraggio di
fronte alla morte - in grado comunque di riscattare l'esistenza ma la fredda e
sgomenta consapevolezza dell'arbitrio del Tempo e del Caos. Operazione questa
obbligata e davvero insostituibile per poter "dopo" interpretare o narrare, ad
esempio, la fragilità e le manchevolezze dei padri ("Gunny"/"Heartbreak Ridge"
(1986); "Un mondo perfetto"/"A perfect world" (1993); "Potere assoluto"/"
Absolute power" (1999); "Mystic river"/id. (2003); "Million dollar baby"/id.
(2004). Così come i composti rimpianti per ciò che avrebbe potuto essere e non
e' stato ("I ponti di Madison County"/"The bridges of Madison County" (1995)).
O le risorse insospettate di energia spirituale che inducono, sotto la scorza
indifferente ridotta a corazza inutile, all'estremo sacrificio di se' ("Gran
Torino"/id. (2008)).
E poi, forzando l'immaginazione - ma nemmeno troppo - : e' sul serio così
azzardato riconoscere, per dire, nel Walt Kowalski di "Gran Torino", la
maschera invecchiata di un Harry Calla(g)han magari non completamente
riconciliato ma in fondo stufo di se stesso, della propria cupezza e quindi in
grado, in extremis, di ribaltare un'intera vita di risentimenti e muta
disperazione in un lascito all'insegna della disponibilità e dell'apertura ? E'
così improprio stabilire un nesso tra il Ben Shockley de "L'uomo nel mirino"/"
The gauntlet" (1977), poliziotto testardo e attaccabrighe ma disponibile ad
innamorarsi di una prostituta al di la' delle convenzioni e dei moralismi e il
burbero manager di boxe Frankie Dunn di "Million dollar baby", pronto, dopo
alterne ostilità, fraintendimenti e dubbi ad "arrendersi" alla elementare e
terribile verità di amare un altro essere umano qui e ora, senza esitazioni,
senza infingimenti ? Ed e' davvero arbitrario ipotizzare che il Frank Morris
che (forse) fugge da Alcatraz e vaga per il Grande Paese, si ripresenti
(sorvoliamo di proposito sulle inesattezze cronologico/anagrafiche) nelle vesti
del reporter-fotografo del National Geographic Robert Kincaid, interessato ai
ponti della Contea di Madison e non solo ?
Fantasticherie a parte, risulta infine tutto sommato chiara, almeno da queste
parti, la relazione di causa-effetto che lega l'attore rigido, legnoso,
scarsamente espressivo e dal personaggio sempre uguale a se stesso,
tratteggiato così da un infinita' di commenti e l'interprete/regista sottotono,
sensibile, dotato di ironia e understatement, dalla forza e dalla trasversalità
dei grandi del cinema americano, omaggiato alla stessa maniera da
un'altrettanta copia di opinioni. Evidenza che, pero', nella percezione comune
ancora latita: i due piani (che, come detto, non sono semplicisticamente tali)
stentano spesso ad incontrarsi. Addirittura a volte finiscono col riferirsi a
due persone diverse: da un lato l'Eastwood uomo e attore forgiato in un blocco
unico, eroe di western e film d'azione in genere brutali e monocorde;
dall'altro l'Eastwood regista prolifico quanto accorto, attento indagatore
delle contraddizioni umane, custode di un'espressività antica e sempre
sull'orlo dell'estinzione.
Magari ci si potrebbe ancora stupire: chi l'avrebbe mai detto che tutti i
silenzi insistiti (l'"equivoco del silenzio" nella sua versione passiva ha
sempre funzionato bene con Eastwood), tutti i mezzi sorrisi dei vari "pale rider
(s)" e "high plains drifter(s)" avrebbero dato l'abbrivio al sax furioso e
dolente di Charlie Parker ("Bird"/id. (1988)) ? Al disincanto legalitario di un
ladro capace di mettere alle corde un Presidente ("Potere assoluto") ? O ai
drammi intimi di uomini in guerra su fronti opposti, tanto netti sulla carta
quanto sfumati nelle coscienze (il dittico "Flags of our fathers" e "Letters
from Iwo Jima", entrambi del 2006), come alle pieghe più riposte e
problematiche dell'animo di un uomo detentore di un potere immenso ("J. Edgar"
/id. (2011)) ?
Magari ci sarebbe solo da riflettere un po' sul fatto che forse la cosiddetta
"classicità" di cui tanto si parla e' un termine molto vicino alla coerenza, a
quel tipo di pazienza/incoscienza/
ostinazione che ti costringe a veder-crescere-
l'erba: attitudine che, al netto di ogni giudizio, e' difficile non riscontrare
nella parabola di Eastwood.
E la maniera migliore di riconoscere la coerenza, di vederla farsi
"classicità", e' quella di cercarla e misurarla all'interno di un atto, di una
scelta, poi dentro altri atti e altre scelte, e così, nel tempo.
Già, il tempo.
Aveva proprio ragione Wheeler.
TheFisherKing
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