di Gianluca Palma
Lu vitti una, doi, tre sire e poi me disse
guarda ca ieu oiu fazzu amore cu tie.
Lampu moi no putimu dire amore ca si no
se pensane ca nimu curcati.
(U focalire, 2009, p. 52)
Sino alle generazioni dei nostri padri o dei nostri nonni, in assenza di cucine a gas e di impianti di riscaldamento, u focalire era cucina e calorifero, ma soprattutto luogo di ricomposizione del gruppo familiare e di ritrovo con il vicinato. Nel segno dell’indigenza e del risparmio, durante le lunghe e fredde sere d’inverno, esso riuniva insieme nonni e padri, figli e nipoti, e con loro i vicini di casa, spesso cumpari o nunni; si trasformava in scenario di una piccola comunità di affetti e in teatro dell’oralità, del raccontare e trasmettere fatti, favole e cunti.

Otto autori, otto interviste che ci conducono in un viaggio per recuperare la magia dell’oralità. Ad essere intervistati, botrugnesi di età compresa tra i 70 e i 90 anni. Interviste interamente in lingua dialettale, che mirano a mantenere viva nel tempo la memoria e l’identità popolare attraverso il linguaggio, non tralasciando le esperienze di vita vissuta, di storia sociale. Una sorta di bilinguismo in cui il dialetto, lingua da custodire e preservare, la fa da padrone.
Dal suggestivo testo affiorano, attraverso le parole degli anziani ‘vitrugnisi’, scorci di vita che fu, testimonianze di tempi lontani, di corrispondenze di guerra, di amori, di passioni, di gesti semplici che oggi sembrano quasi desueti, ma che ricordano il nostro passato del quale ognuno degli intervistati è orgoglioso.

Dai ricordi delle anziane intervistate riemergono magicamente spensierati ricordi di gioventù:
<<Da signorine, ricordo che con il nostro gruppo di amici e amiche usavamo organizzare feste da ballo, per i compleanni, la pentolaccia, carnevale e altre occasioni. Si arrivava verso le ore 20 e il ritorno era intorno alla 24>> (p. 60)
E l’illuminazione pubblica si affaccia timidamente nella vita del paese: <<C’erano tre lampioni alimentati a petrolio per l’illuminazione del nostro paese. Un certo Palma, che abitava alla Giudecca, la sera munito di una scala, accendeva questi lampioni. Per questo suo lavoro, furono soprannominati ‘i pitrujari’>> (p. 60).
Il libro è la rievocazione di questi scenari. È un emozionante tuffo nel passato, un viaggio nei ricordi di quelli che a tutti gli effetti potremmo considerare i ‘nostri nonni’. Un misto tra realtà e credenze popolari, un’atmosfere magica che non racconta una favola, ma le vicende di Botrugno, un paese del Basso Salento, quasi un secolo fa.
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