Avevo appena sedici anni quando vidi per la prima volta Ecce Bombo. Diciassette quando vidi l’introvabile Io sono un autarchico. Non sono stato più la stessa persona. In questi due film c’era qualcosa di impalpabile, di pesantemente evanescente, che determinò nella mia giovane coscienza appena uscita da una lunga infanzia un mutamento di cui ancora oggi subisco le conseguenze.
Questi due film, cosi diversi eppure cosi simili tra loro, frutto di una medesima riflessione portata avanti da Moretti per tutti gli anni ’70 (che per fare un film bisognasse l’autarchia, basso costo e piccoli circuiti), produssero in me la consapevolezza di un mondo tutto da conoscere al di là delle triviali abitudini infantili.
Un mondo misterioso, a tratti pauroso, con cui però era necessario fare i conti. Il mondo “dei grandi”. Dunque per me Moretti ha rappresentato il passaggio dall’adolescenza alla maturità, dall’incoscienza alla coscienza, dal sogno alla realtà, dal nebuloso e pigro vegetare alla piena costruzione di un IO. Ci un fu un momento, che durò in realtà alcuni anni, che parlavo come lui; mi vestivo come lui. Mi facevo paura.
Identificandomi con Michele Apicella, alter ego di Nanni Moretti, non potevo non subire il fascino “malato” di un personaggio al confine tra la maschera tragicomica e il mistico vagabondare di un Buster Keaton. Ciò che mi affascinava era la sua “saggia” irruenza, il suo sentirsi co-stretto dentro logiche familiari e sociali omologanti, alienanti (strepitoso l’urlo angosciante di Michele quando legge le notizie sul giornale in un afoso giorno d’estate in una Roma deserta) che non gli appartenevano ma che era appunto costretto a subire e a vivere come normali, come proprie; il suo voler a tutti i costi demolire per ricostruire a sua immagine e somiglianza un mondo in costante sfacelo e tra queste rovine ritrovare il grottesco guizzo dell’autoironia, del dissacrante gusto anarcoide del nichilismo. Esserci per non voler più essere; farsi riconoscere (per essere amato da tutti, disse Moretti in un’intervista del 1977) per svanire, non essere più protagonista; ormai mitologica la battuta di Ecce bombo: “che dici vengo? Mi si nota di più se vengo o non vengo per niente?”
Mi attraeva la sua follia, il suo aver tradotto il motto Shakespeariano “essere o non essere”, sapientemente filtrato dalla decomposizione progressiva di Carmelo Bene, nelle logiche autarchiche di un giovane autore che contro tutto e tutti aveva dimostrato che era possibile fare cinema “d’autore”, farsi ascoltare, costruirsi un proprio pubblico senza per questo doversi prostituire alle grandi major, abbracciando il qualunquismo e il perbenismo del circuito che conta; fare film senza grandi nomi né mezzi tecnici imponenti. Tutto fatto in casa. Pellicola Super 8. Amici e parenti come attori. Storie semplici tratte dal proprio vissuto. Autarchia totale. Scrivo, dirigo, recito, monto, promuovo, tutto da solo. Dimostrare, con la macchina fissa senza stilemi d’avanguardia, che il cinema è sempre comunque cinema e che la realtà è sempre e comunque più complessa del mezzo che tenta di rappresentarne l’essenza. Una lezione, a mio avviso, sempre più attuale e che va ribadita con forza, in un momento in cui la videocrazia (anche senza il suo anfitrione Silvio) detta ancora legge influenzando personaggi – i tecnici oggi al governo – che si pensava potessero esserne immuni; una fase in cui il cinema mondiale è sapientemente costruito non tanto per raccontare delle storie, ma per influenzare in modo capillare la psicologia e i gusti subliminali dello spettatore. Un cinema dunque che bada più ad entrare nel cervello, nella già debole psiche dell’uomo che suggerirli una visione critica del mondo e della realtà. Non vi è neanche più un autentico ricorrere all’arma della fantasia per “evadere” dalla penosa realtà quotidiana; il fantasy o il paranormale (vampiri e co.) servono solo per ribadire – astrattamente – l’orrore del nostro presente, la sua strutturale irrazionalità; il male domina. Non possiamo farci niente. Siamo tutti dei capri espiatori mandati al macello.
Fatta questa piccola ma necessaria digressione, torniamo a bomba.
Sono passati 35 anni da Ecce bombo, ma la forza “polemica” della sua messa in opera (anticipò l’era dei filmakers indipendenti) e dell’ansia disarmante del suo protagonista, sono più attuali che mai.
Possiamo dire, senza timore di smentita, che Io sono un autarchico (1976) e Ecce Bombo (1978) sono due facce della stessa medaglia; due parti di un medesimo film. Il primo e il secondo tempo di un ragazzo che aveva voglia di uscire dal grigiore, dall’anonimato, per urlare al mondo la sua esistenza; dire quello che è già stato detto però con parole tutte sue, innovative, capaci di creare da un’apparente nulla (in realtà pieno di vita e di esperienze) un linguaggio nuovo, una psicologia nuova, attraverso cui inserirsi nella grande crisi che il cinema italiano stava attraverso in quel periodo dopo la morte dei grandi maestri del neorealismo, come De Sica e Visconti, e l’esaurirsi del cinema d’inchiesta (Rosi, Petri, Montaldo) e dell’epopea storica (Bertolucci, Lizzani), non riuscendo più a ritrovare un’identità, quella forza espressiva e narrativa, che lo aveva fatto grande nel mondo. L’unico che mantenne intatta la sua verve creativa fu Fellini che, in quei precari anni ’70, ottenne un meritatissimo Oscar con Amarcord ed ottimi riconoscimenti internazionali. Ed è proprio all’ironia beffarda ed onirica di Fellini che Moretti, senza mai dichiararlo apertamente, si ispira.
E in quel delicato crinale, tra passato glorioso in progressivo ed autoreferenziale declino e nuove leve ancora tutte da definire (che daranno i loro frutti solo a partire dai primi anni ’80 con i cosiddetti nuovi comici, Verdone, Troisi, Benigni, Nuti, ecc e i nuovi registi come Tornatore, Giordana, Salvatores, ecc), Moretti intercettò un nuovo umore, un gusto che fermentando per tutti gli anni ’60 e ’70, era ormai giunto a maturazione creando quel curioso fenomeno popolare, il morettismo, a cui ancora oggi assistiamo. Il miracolo fu quello di riuscire a far coincidere, cosa davvero rara nel cinema italiano, il proprio gusto, il suo proprio autocompiacimento filmico, la propria dichiarata e liberatoria autarchia (molti critici parlarono di cinema “masturbatorio”) con i gusti di vaste masse di spettatori (erano anche altri tempi, in cui il cinema aveva una funzione “sociologica” di decifrazione del reale oggi impensabile e i circuiti indipendenti sfornavano nuovi talenti e tendenze alternative), che si riconoscevano nei patetici, ironici virtuosismi linguistici, nelle giravolte esistenziali, nei drammi agrodolci saturi di goliardia crepuscolare di Michele Apicella.
Ma cosa davvero straordinaria, che desta meraviglia, fu la capacità di Moretti di far coincidere la tradizione (Fellini, Woody Allen, Buster Keaton) con le proprie idiosincrasie, determinando un fertile cortocircuito, un virtuoso gioco delle parti, che da allora rappresenta la cifra stilistica di tutto il suo cinema. Un cinema che è cambiato molto negli anni, rinunciando all’autocitazione e all’autarchia, maturando, aprendosi “all’altro” (almeno da La stanza del figlio in poi), come il suo indiscutibile protagonista.
Ma Ecce bombo rimane, secondo molti suoi affectionados, il suo film manifesto, il suo insuperabile capolavoro, il suo “testamento spirituale”, scritto e diretto a 24 anni; e ciò è tutto dire.
Un film, come ebbe a dire Enrico Ghezzi in una famosa intervista a Moretti del 1989, capace di farci proiettare ogni volta che lo vediamo nel nostro passato, facendoci ricordare dove e come eravamo la prima volta che l’abbiamo visto, registrando quasi scientificamente l’oggettività di un tempo che passa senza passare, che scorre nelle immagini bloccandosi al di fuori della proiezione. Un film che si inscrive in una autentica dimensione a-temporale, in cui tutto si è fermato nell’anno in cui il film è stato girato. Quando vediamo Ecce bombo non siamo nel 2012 ma nel 1977; anche e soprattutto se non ci siamo mai stati. Si vive una sorta di black out temporale. E dalle prime esilaranti battute (feroce satira dei b movie di quegli anni) fino alle ultime sequenze, la macchina del tempo si mette in funzione. E’ una film che unisce le generazioni, le ansie e le paure, l’ironia e il grottesco di un “dover essere giovani” nonostante tutto, che unisce senza mai imporre l’ansia di connettere arbitrariamente storie ed esperienze diverse. E’ un arcobaleno corale, dove la pluralità è di casa, in cui ognuno può vederci ciò che vuole. Moretti lancia uno spunto, descrive uno spaccato di realtà, ci offre la sua esperienza. Sta a noi, ritrovarci o no in essa.
Un film manifesto abbiamo detto, capace di preconizzare il disorientamento politico ed esistenziale che segnerà “il riflusso” dei decenni seguenti. Uno sbandamento, un caos ideologico, ben descritto da Moretti in uno stimolante corto del 1973, intitolato non a caso La sconfitta, in cui il protagonista, giovane attivista della sinistra extra-parlamentare, cerca conforto e lumi da un militante più esperto, senza in realtà trovarci nulla se non il suo miope dogmatismo. Uno strisciante pessimismo (che forse nasconde la voglia di andare oltre lo stagnante dualismo PCI-sinistra extraparlamentare) che emerge anche in significative sequenze di Io sono un autarchico, in cui alla ferrea disciplina “avanguardista” del capocomico Mirko (l’amico e compagno di banco al liceo Lucrezio Caro, Fabio Traversa) si contrappone gli istinti più faceti e “menefreghisti” dei poveri attori obbligati ad interminabili marce in campagna ed estenuanti esercizi ginnici. Memorabile la battuta; “senza pettorali, senza ventrali non si fa l’avanguardia”. Così come l’ironia neanche tanto velata al teatro sperimentale delle cantine, al magro pubblico, spesso composto da amici e parenti, che fugge dopo la fine della recita appena annunciato il dibattito, al verboso e lirico critico “aristocratico” che si presta ad assistere alla prima per mancanza di reali stimoli del teatro “ufficiale”. Per non parlare della grottesca critica al compromesso storico lanciato in quegli anni da Berlinguer, messa in scena nel teatrino-cantina, in cui i due attori filodrammatici Michele e Paolo (Moretti e Zaccagnini) irridono alla carica eversiva della “svolta” portata avanti dal segretario del Partito Comunista.
Vi è dunque una feroce satira nei confronti di un’utopia che ha deluso, che non ha mantenuto le sue promesse, per un ideale su cui un’intera generazione aveva costruito la sua esistenza, le sue scelte personali e collettive, ricevendone solo qualche bagliore di speranza. Un mediocre e grigio post-marxismo, una repentina ed interessata “fine delle ideologie” (che ci portiamo dietro fino a oggi), in cui al NOI si va progressivamente sostituendo un IO ancora più mediocre e contraddittorio, che cerca invano una felicità personale, individuale, che quella collettiva gli ha solo fatto intravedere.
Esemplare, in questo, è il finale di Ecce Bombo in cui tutti i protagonisti, animati dalle buone intenzioni di un’etica solidale che propagandava la necessità di non lasciare indietro nessuno, decidono di andare a trovare una loro amica vittima di disturbi psichici. Tuttavia, ognuno troverà un scusa per non andare, per non dover affrontare il dolore di chi realmente sta male e soffre, ben lontano dagli ipotetici sfruttati presenti e vivi solo nei libri. L’unico che avrà il coraggio di confrontarsi con un disagio a cui non si è mai preparati è proprio “l’egotista” Michele Apicella. E’ un radicale j’accuse a tutta la retorica della sinistra, soprattutto quella intellettuale, che la sinistra non gli ha mai perdonato.
I ragazzi di Ecce bombo non vivono solo un disorientamento ideologico, politico (delusione verso un Pci “alleato” della DC e saturazione nei confronti delle mitologie rivoluzionarie dell’ultra sinistra) che li fa perdere progressivamente la fiducia nella possibilità di cambiare la propria esistenza gettandoli in un pessimismo nichilista difficile da superare, ma anche e soprattutto esistenziale, sia in famiglia che col rapporto con le donne. L’idea di organizzare un gruppo di autocoscienza maschile per discutere assieme dei propri problemi è solo un patetico miraggio, un modo per convincersi che nulla è perduto. Il mondo cambia rapidamente e le relazioni umane si fanno sempre più difficili, più intricate. I ruoli tradizionali svaniscono; le donne, prendendo coscienza, scardinano i vecchi equilibri. E in tutto questo, il maschio brancola nel buio, non sa più cosa fare. Cerca a tentoni una soluzione, forse ribadire ingenuamente l’eterna supremazia, ma invano. Troppe cose sono cambiate. Subentra, e questo è davvero interessante, ad una mole impressionante di parole e di discussioni (quello fu l’anno dell’esplosione delle radio private e dei circoli di autocoscienza, dei collettivi, delle comuni) una profonda e radicale difficoltà di comunicare, capirsi, ascoltarsi, anticipando de facto ciò che sarebbe avvenuto nei decenni successivi. Tipico di questo, l’agrodolce scambio di battute tra Michele e Flaminia, moglie del suo amico e compagno di autocoscienza Cesare, in cui i due non riescono più a connettere i loro desideri. Due voglie presenti, attive, concrete che si scontrano contro l’ineluttabilità di un quotidiano che non può essere più mutato. Beh, una bella involuzione dagli anni del “tutto è possibile”, “vietato vietare”, “la fantasia al potere”, ecc.
La paura di fare e sentire, l’impulso pigro e superficiale nel delegare ad altri il proprio destino così come la propria felicità, comincia a serpeggiare assieme all’illusione di risolvere da sé, nel proprio intimo, i propri problemi, comincia a diventare prassi comune. Gli anni ‘80 alle porte certificarono, inesorabilmente, questa tendenza generale.
Insomma, per concludere. Dopo 35 anni, Ecce bombo racconta i nostri tempi. Pessimismo, fatalismo, disorientamento, riflusso nel privato, incomunicabilità (nonostante oggi disponiamo di mezzi tecnici come FB, i social network, chat, in cui possiamo entrare in contatto ma non in comunicazione con milioni di persone), sono tutti elementi già ben presenti e descritti da Moretti in tempi non sospetti. In una fase in cui ci si illudeva che la sinistra potesse essere immune da tali degenerazioni. I maturandi che al posto dei presidenti della Repubblica recitano la mitica formazione dell’Inter anni ’60, che ripetono a pappagallo durante l’esame gli slogan dei gruppuscoli senza in realtà capirne il senso o che tentano di occupare scuola quando quelle forme di protesta hanno fatto il loro tempo, simboleggiano emblematicamente una tragica sconfitta, un imbarazzante esser “fuori tempo massimo”.
Io sono un autarchico e Ecce bombo, sono in piccolo due gemme polemiche di un movimento straordinario ed unico che stava già declinando, sparando le ultime cartucce su giornalisti, giudici e politici. Certo, non tutto quel movimento si ridusse alla cecità disperata della lotta armata. Non dobbiamo cadere in questo stupido, penoso equivoco. Ma Moretti, attraverso quella spietata e a tratti cinica autocritica, ci permette di criticare quel futuro fattosi inaspettatamente presente, che in quegli anni sembrava tanto, troppo lontano.
Claudio Vettraino