E’ morto l’autore de “Il nome della rosa”: questo è ciò che in sostanza si legge su tutti i giornali e siti sulla scomparsa di Umberto Eco, proponendo una versione standard di un autore che lo stesso Eco avrebbe probabilmente accusato – fatta la tara della sua epocale vanità – di essere priva di reale cultura, di essere un prodotto mediatico ancorché parte integrante della pompa funebre. Questo mi dà ancora di più la misura della lontananza che ho dalle narrazioni comuni perché quando ascoltavo le lezioni di Eco nelle aule dell’Alma mater studiorum o lo vedevo aggirarsi assiduamente nelle sale della Feltrinelli sotto le due torri (salvò pure da un molestatore la mia fidanzatina di allora) quel romanzo era di là da venire, ma il semiologo era già un mito per noi studenti, era l’ideologo del Gruppo ’63, l’autore di Apocalittici e integrati, il saggista de La struttura assente ed era la più palese dimostrazione che rigore e cultura non si coniugavano necessariamente con la seriosità accademica. Capisco che oggi possa sembrare strano visto che i termini si sono invertiti e che tra lazzi e mazzi di una sconcertante banalità e miseria intellettuale si cercano invano le tracce di un minimo di serietà.
Comunque quando uscì il Nome della rosa e cioè quando Eco cominciò ad essere conosciuto al grande pubblico a me e ad altri sembrò invece che una carriera si fosse conclusa e che il personaggio cominciasse a tirare i remi in barca , a vivere un po’ di rendita benché non avesse nemmeno quarant’anni. E infatti nel progressivo salire le scale della torre d’avorio non ha prodotto più nulla di paragonabile: i romanzi successivi da buon non narratore, sono stati poco più di un divertente gioco erudito, mentre i saggi seppure di livello, non hanno conosciuto certo il nitore, il peso e nemmeno l’ironia e la novità di quelli precedenti. Ma in fin dei conti, soprattutto dagli anni ’90 in poi Eco ha utilizzato la “fabula” del romanzo e l’intervento breve delle bustine varie per non entrare in collisione diretta e ideologica col potere. Dal teorizzare che i mass media sono in se stessi un mezzo di costruzione della realtà e che la loro concentrazione è inevitabile a prendersela con il complottismo, gli imbecilli del web e quant’altro, ce ne passa: abbastanza da poter disegnare il percorso di un declino.
Ma la maggiore accusa che si può fare a Umberto Eco è quella di essere stato Umberto Eco: ovvero l’intellettuale di grande prestigio la cui lettura settimanale, a cadenza di romanzo o come santo protettore di un’infinità di dispense enciclopediche, è stato l’alibi per molti, per troppi di pensarsi colti senza far fatica. La porta d’ingresso intarsiata verso le vertigini affollate del banale. La lettura del nome della Rosa ha posto un timbro di libera entrata verso i piaceri di Fabio Volo e compagnia cantante o scrivente, la vulgata delle sue antiche teorie sono state sfruttate per dare una qualche polpa all’editoria di massa in cortocircuito con la tv oltre che con il consueto familismo italiano e la futilità. Non è stato certo il solo, né in Italia, né altrove, ma di certo è stato tra i più eminenti fabbricatori involontari di passaporti apocrifi. Vengono i brividi leggendo l’epitaffio del falso profeta Saviano che sente il bisogno di ricordarlo dicendo solo che ha fatto tanto per la sua carriera. Ora si che una bustina di Minerva definitiva ci starebbe proprio bene.