Insomma, c'è un mondo che travalica la pasta e la fettina di vitello. D'accordo, lo sapevo, ma addentrarvisi è un'altra cosa. Viene però il momento in cui devi fare i conti con la tua dieta, con le tue abitudini alimentari, con la vita stessa, la tua e quella degli animali che sacrifichiamo per nutrirci. Mai come in questo periodo avverto fortissimo lo spreco di ciò che c'è nel piatto: non solo il denaro necessario a comprarlo, non solo il pensiero a chi quel cibo non l'ha, ma anche quello che c'è voluto per procurarselo (percezione quasi straniante per chi abita in città e vive del suo essere ineludibilmente cittadino senza scampo, incapace di immaginarsi in realtà extraurbane, per quanto idilliache).
Ecco che allargando lo sguardo a un orizzonte un po' più ampio del mio pur capiente stomaco, le cose si fanno meno semplici e contrarie a facili dogmatismi. Come i sempre più numerosi servizi ormai ci mostrano, i poveri animali che noi mangiamo sono sottoposti a una serie di sevizie e lo stesso danno si riversa su tutti i cibi da loro derivati: va da sé, i grassi, ma anche il latte, il miele, le uova e così via. Insomma, ogni animale viene assunto quale industria produttrice di quel particolare prodotto. E qui veniamo ai rancori. Non solo delle persone più sensibili - o perfino suscettibili - a fronte della sofferenza animale, tra le quali mi voglio collocare io, ma anche quelli di chi sostiene la natura onnivora dell'uomo e la necessità di accedere a ogni fonte di sostentamento.
Non ci vuol molto a capirlo, io non sono uno scienziato. Non sono in grado di prendere parte nel dibatttito che si apre a questo punto sulla natura dell'uomo e credo che siano necessarie considerazioni un po' meno immediate per farlo. Sono d'accordo con quasi tutto quello che capisco e che sono in grado di appurare da me, non ho armi contro le considerazioni specialistiche sulla lunghezza degli intestini o la forma dei nostri denti, ne prendo atto e stop. Di contro, mi pare che non ci sia un dibattito serrato che miri a fare una chiarezza e dunque cultura - e, si badi, una divulgazione - che includa anatomia comparata e altre amene conoscenze, ciascuna delle quali richiede una vita intera.
Sta di fatto che mi infastidisce l'uso di nomi latini per certi batteri come formule magiche risolutive dei nostri mal di stomaco, per non parlare dell'abuso della formula pubblicitaria "test clinici" o dell'insistita patologizzazione del nostro vivere quotidiano: anni fa, la buona vecchia Wanna Marchi ci suggeriva discretamente che facevamo tutti schifo, obesi e mollicci; oggi la cellulite diventa una malattia, come il suffisso -ite ben suggerisce ai piccoli medicucci che siamo diventati attraverso la televisione e le stregonesche trasmissioni di ricette con ingredienti esotici e assolutamente salutari che provengono da isole lontanissime (ma attenzione: che oggi coltiviamo anche noi).
A prescindere dalla perdita di vite animali, problema che certo non mi lascia insensibile, cos'è più ecologico? La coltivazione intensiva di soia e di riso oppure il cibo da strada mediterraneo, tutt'altro che alieno dall'uso di carne? Da anni si demonizza il latte, ma per qualche secolo, per non dire millennio, ne abbiamo fatto uso - e comunque non credo che sia facilmente sostituibile. Le erbe usate per le tisane, nelle quantità che la pubblicità ci invita a ingerire, sono un'alternativa? Io credo soltanto che ogni cultura sia andata avanti con la sua cucina, finché non ha conosciuto le altre e se ne è fatta influenzare; di contro, nessuna produzione - sia pure eccedente - per un singolo Paese è in grado di sostenere le mode che attraversano il mondo intero.
Questa corsa al salvataggio tramite le cucine orienali "povere di grassi", tramite bevande vegetali e diete draconiane che prevedono una mania alimentare, non una cultura del cibo e perfino del piacere, è solo fonte di danno. Non ci vuol molto a capirlo, se si considera che prima il pranzo, la cena e la colazione erano parte di un sistema educativo fortissimo che voleva imprimersi in ogni aspetto della vita umana, per cui esisteva una relazione tra quella fetta di carne e la tua stessa esistenza. Oggi invece la cultura alimentare è altro da quella storica, la cultura "libresca" sta sugli scaffali e dentro la testa dei topi di biblioteca, dobbiamo rassegnarci al fatto che non siamo curiosi, spesso, quando meno ce l'aspettiamo, in gran parte non siamo uomini e donne di cultura. La cultura come esistenza e se vogliamo come antropologia (ma Dio ci liberi dal predominio accademico in un settore così delicato).
In quest'ottica, come facciamo a inchiodaci su una mania pubblicitaria, sia essa "carnivora" o "veg"? Non vorrei mai lasciare che il mio essere per terra, nell'aria, nella vita venisse divorato da una mania passeggera. Non so quanto sia più salutare una dieta più "specializzata" (non rivolta a pochi cibi) o al contrario abitudini alimentari più aperte (intendo sia come cibi che come modalità di fruizione degli stessi). Credo che sul piano anatomico potremmo non essere pronti a un'eccessiva eccentricità di pasti. D'altra parte, è anche vero che quest'attenzione al mondo fuori dal proprio stomaco tenesse conto che ci sono altre persone attorno a me, che ciascuno mangia come sa, come può e come vuole, anche nell'ipotesi più rosea di una diffusissima cultura "alimentare".
Per capirci, forse è bene che siamo in grado non solo di immaginare un ecosistema, ma anche un ecosistema dinamico: molti dei piatti della nostra "tradizione" sono invenzioni recenti che anni fa hanno dato origine a un nuovo ambiente, non per forza più salubre di quello attuale o di quello futuro. Ecco, questo è il punto: fatto salvo l'indiscutibile amore per la vita (vegetale e animale, dunque anche la nostra vita), solo accettando la natura in divenire dell'ambiente, terrestre e marino, rendiamo giustizia a quello che siamo e a quello che vogliamo e ci apriamo a nuove possibilità di mangiare e vivere meglio.