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Economia anno zero

Creato il 10 maggio 2014 da Ilnazionale @ilNazionale

economia110 MAGGIO – Immaginiamo scenari futuri di ripresa dell’economia, nell’ottica della speranza, superando visioni pessimistiche.

Partiamo da una serie di idee provocatrici. Se vogliamo ripartire bisogna guardare alla realtà con occhi nuovi, iniziando a rappresentare la nostra realtà in un modo nuovo. Immaginiamo, come nel film del 1948 Germania anno zero, che la nostra economia sia tornata all’anno zero. Anche altri film neorealisti, oltre a quello citato, possono mostrarci il rapporto fra la rinascita economica di un Paese e il suo sviluppo culturale. Ci sono tante cose che ci potrebbero fare il bene dell’Italia, ma non le facciamo lo stesso, con il risultato che ci ritroviamo in mezzo al guado senza decidere. In realtà non sembra che quest’anno vi sarà una ripresa significativa. Non siamo in una situazione per la quale, dopo la crisi, torneremo sulla curva dell’economia precedente, ma siamo in una situazione nuova. Bisogna guardare a informazioni economiche nuove, senza limitarsi ai soliti concetti di Pil o produzione industriale, che prevedono piccole crescite, sempre riviste al rialzo nelle stime del governo. Se anche questi indicatori tornassero a crescere, ciò non produrrà un grande impatto sulla vita delle persone perché non siamo più il Paese che eravamo negli anni Sessanta, quando bastava aumentare un po’ di disponibilità nelle tasche degli Italiani e la vita di tutti migliorava.

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In Italia i laureati erano il 15% nel 2011, contro la media OCSE del 31% e UE del 28%. Continuiamo a pensare che lo sviluppo si basi sulla situazione dell’industria, ma per altri dati siamo in posizione molto più bassa degli altri Paesi UE e OCSE. Un Paese che ha un tasso di scolarizzazione così basso persiste nel considerarsi molto sviluppato, per cui continua ad investire dove pensa si giochi la partita più importante, mentre per altri aspetti non lo fa. Il numero degli iscritti all’università è aumentato, mentre è diminuito rispetto agli anni Sessanta il numero degli iscritti alle scuole superiori. Questo indice denota –seppur in modo impreciso e parziale- un certo ritardo nell’istruzione, mezzo che invece può aiutare lo sviluppo. Bisognerebbe guardare anche alla produzione culturale come quantità di cultura che viene creata per le generazioni più giovani, confrontandola con la produzione industriale. La cultura è qualcosa che deve maturare nel tempo: se non ripartiamo dall’educazione, dall’idea che lo sviluppo individuale e personale passi per l’istruzione che porta alla formazione di una cultura, allora non si potrà curare adeguatamente l’economia. Non ogni processo formativo è professionalizzante, misurabile come nuova opportunità professionale. Anche il metodo di insegnamento incide molto. Si pensa che per i primi 25 anni di vita circa si debba essere “parcheggiati” in attesa che succeda qualcosa di importante, oppure si pensa ad essi come ad anni fondamentali per formare generazioni capaci di vivere socialmente?

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E’ l’idea del rapporto maestro-allievo, per il quale la formazione serve non solo a trovare lavoro, ma anche per attingere “al massimo di felicità possibile per un mortale”, come affermava Platone nel Fedro. Bisogna che il Paese riprenda in mano la propria responsabilità culturale, non si può aspettare di attuarla solo quando si assumono ruoli politici o dirigenziali. La responsabilità viene in primo luogo per lo studente nel momento che incontra il sapere, parametro con il quale deve costantemente interrogarsi. Occorre rifondare la responsabilità culturale delle nuove generazioni, per la formazione della persona umana come fondamento del percorso culturale di ognuno. Una persona che si forma solo in vista di un lavoro non potrà pensare al bene comune nel momento in cui assumerà responsabilità maggiori su tutta la società. Ci si forma per comprendere la realtà, per guardarla, per capirla nei nessi esistenti fra le varie esperienze del vissuto personale e sociale. Se non si è in grado di cogliere il tutto si guarderà sempre in basso, sviluppando solo un feroce individualismo. Se si vuole ripartire dall’anno zero, dobbiamo pensare alla relazione fra quello che cambieremo e le nuove generazioni che stiamo formando.

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In questo momento storico siamo tutti in attesa di un cambiamento. Come ha più volte ricordato nei suoi interventi Riccardo Milano, fondatore di Banca Etica, siamo passati dalla povertà alla ricchezza in pochi anni, ma ora bisogna fare un cammino più complicato nel passare dalla ricchezza alla povertà. C’è molta disillusione nei tradizionali “Paesi ricchi”, il che non può che essere foriero di qualcosa di nuovo. La crisi non è un’esperienza innaturale, si sviluppa spesso rapidamente, a volte prepotentemente, e serve quasi sempre a cambiare. Oggi si sente parlare tuttavia di una crisi strutturale, al di fuori della quale sembra impossibile muoversi. E’ possibile superarla? Tutte le crisi hanno un’origine e una fine, ma forse bisogna creare qualcosa di diverso per uscirne positivamente. Sono trascorsi ormai sei anni dall’inizio della crisi che colpì la finanza americana e, di riflesso, anche quella mondiale e non si sta facendo nulla per cambiare, eccetto che negli USA dove ormai il periodo nero dell’economia è già stato superato. In Italia, invece, non si stanno toccando quelle realtà che sono causa della crisi mentre, come al solito, il prezzo più alto lo paga il welfare. Si chiede alle solite classi sociali di pagare e tacere, reputandole incapaci di ribellarsi.

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I cambiamenti epocali sono iniziati sempre dal lavoro: dopo la caduta dell’impero romano, i benedettini hanno ricostituito l’economia sul lavoro –con il motto ora et labora-. Oggi sta venendo meno il lavoro perché si è pensato che le rendite finanziarie fossero più importanti del vecchio, caro, sudore della fronte. Così la ricchezza è diventata arricchimento privo di cultura, incapace di guardare oltre se stesso. Il termine economia sta a significare, letteralmente, “cultura della casa”, ma Aristotele vi affiancava la parola crematistica, per indicare il caso patologico in cui il suo scopo era il solo guadagno personale. Oggi viviamo non l’economia ma la crematistica, perché chiunque sarebbe disposto a bruciare le tappe pur di guadagnare un sacco di soldi senza alcuna fatica. La televisione pullula di programmi che promettono successo facile, una montagna di denaro e popolarità senza che tutto ciò derivi da particolari meriti personali, né lavorativi né intellettuali. Internet, allo stesso modo, bombarda le menti degli utenti con messaggi che propongono di diventare trader e di guadagnare migliaia di euro –o dollari- in un’ora.

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E’ l’avidità, per l’uomo medievale il più grave peccato, a bloccare la coesione fra le persone. Nella finanza di oggi l’avidità è addirittura considerata un aspetto positivo, necessario per accumulare nuova ricchezza. Non è un caso che spesso ciò che viene fatto in economia sia immorale, ma non illegale. Oltre al profitto delle banche, però, ci sono i diritti di tutti, ivi compreso il diritto al credito. Oggi gli sportelli sono ovunque, mentre un tempo erano in centro città e nelle zone industriali, perché servivano a finanziare l’impresa. Ora, invece, servono a raccogliere il risparmio delle famiglie e ad investirlo nei mercati finanziari. Miliardi di denaro reale possono moltiplicarsi o bruciare nel corso di una sola giornata, per il semplice fatto di aver compiuto un investimento giusto o sbagliato. È significativo notare come oggi le banche non lavorino più per lucrare sugli interessi, ma solo sulla finanza. Questo in spregio agli insegnamenti dei nostri nonni e bisnonni, che proprio con il sudore della fronte ci hanno sempre fatto capire che la ricchezza rimane, mentre l’arricchimento passa.

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Si fa un gran discutere in Italia sul problema degli ammortizzatori sociali, che servono a ridurre il colpo inferto dalla perdita dell’impiego, ma che fanno perdere anche il senso della dignità del lavoro. Se il primo, grave problema del Paese è la produttività, subito dopo viene il consumismo che si estende anche al mercato del lavoro. Chi lo fa fare all’imprenditore di pagare stipendi e contributi ai nostri operai, magari perdendo le notti insonne al pensiero di istruirli adeguatamente sulle misure di sicurezza, se può espatriare trovando all’estero manodopera a basso costo subito sostituibile? Le cose da fare sono molte più di quelle che pensiamo, soprattutto per chi decide di entrare in politica. Osservando i grafici sul PIL delle varie zone del mondo, vediamo che nei prossimi vent’anni esso proverrà soprattutto da quello che, fino a poco tempo fa, era considerato il Terzo Mondo, con un declino maggiore per l’Europa occidentale che non per gli USA. Del resto, le colonie sono sorte nell’Ottocento per drenare le ricchezze del resto del mondo, quando hanno ottenuto l’indipendenza la situazione è invece cambiata. Nel 1975 il primo G7 ha segnato l’avvento della globalizzazione così come la conosciamo noi oggi e c’è da aspettarsi che, in questo nuovo millennio, siano proprio i Paesi un tempo più svantaggiati a farla da padrone sul piano dell’economia. Cosa deve fare l’Europa di fronte a tutto questo? Può utilizzare armi forti, rappresentate dalla maturazione del pensiero, dal riconoscimento della dignità del contribuente, dei lavoratori, di ogni classe sociale in quanto dotata di diritti umani. In questo contesto non ci si può dimenticare del perché si debba studiare e lottare per diventare lavoratori capaci. Non si può restare sempre fanalino di coda in Europa o peggio, nel mondo, e poi pretendere di cibarsi delle briciole. L’elemosina aiuta a sopravvivere ma non basta a vivere, occorre il lavoro che dà la dignità.

Enrico Vanzo

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