Qualche tempo fa, Luca De Biase ha segnalato un volume "Del cooperare. Manifesto per una nuova economia". Ho letto la sezione scritta dallo stesso De Biase, intitolata Economia del Comunicare; ne riporto qualche brano, e condivido qualche appunto desideroso, come sempre, di discuterci su.
"Elinir Ostrom ha dimostrato che le società sanno autorganizzarsi per gestire le risorse comuni e nella comunicazione trovano grandi e crescenti motivazioni per farlo. Anche in questo settore, il denaro è una forma di informazione: sebbene le idee non abbiano prezzo, la scarsità, quindi il costo monetario, si concentra sugli strumenti che le trasportano, le elaborano e le registrano, oppure sul tempo e l'attenzione delle persone che se ne occupano. Il mercato dei beni che valgono in quanto contengono idee si sviluppa per le vie più diverse. Tra queste c'è l'Editoria."
Qui, credo, Luca De Biase, ci mostra la realtà, che, vista e descritta così, ha qualche cosa di inquietante. Per due ragioni.
La prima: se l'informazione è ciò che le azioni umana e tecnologica possono trasformare in conoscenza e se l'informazione è denaro, allora si starebbe ammettendo che il denaro si può trasformare in conoscenza. Da un lato questo è anche "giusto" perchè, per quanto la conoscenza sia un bene comune, non è sostenibile che sia prodotta in modo gratuito; da un altro lato, però, è sufficientemente indicativo del saccheggio di un Bene Comune da parte del Capitale (se c'è il denaro di mezzo, a meno di una implementazione equa dei meccanismi con i quali esso viene scambiato, c'è, per l'appunto, anche un saccheggio).
La seconda: perchè a trarre beneficio dai mercati che contengono idee devono essere soltanto gli editori? Tenendo conto del loro fondamentale apporto al processo di produzione di senso (i.e. conoscenza a partire dagli elementi informativi, vedi sche), anche per i lettori dovrebbe esserci un meccanismo di ricompensa.
"[...] i beni ambientali, culturali e relazionali, impoveriti in Occidente nel corso dell'industrializzazione, sono oggi al centro dell'attenzione tra le élite intellettuali e nelle società, mentre le istituzioni e le grandi narrazioni continuano a dimenticarsene."
Qui c'è almeno un po' del pensiero di Zygmunt Bauman: il Capitalismo ha fallito clamorosamente il suo obiettivo e la sua degenerazione ha prodotto una paurosa disparità nella distribuzione della ricchezza e avviato la reiterazione di scoperte e successivi prosciugamenti di "virgin land" (tradotto nel suo testo"Capitalismo Parassitario" in "pascoli vergini"). I pascoli vergini sono i Beni Comuni, tra questi la cultura, le idee, la Conoscenza. Ciò che Luca De Biase aggiunge è l'implicito riferimento a delle istituzioni complici di questo prosciugamento; credo sia scontato riflettere sul fatto che, ora, è proprio dalle istituzioni che dovremmo aspettarci una spinta propulsiva. Come? Con le leggi, facendone di nuove a favore dei Beni Comuni. Se già un referendum in Italia ha detto che l'Acqua è un Bene Comune, non vedo quale tipo di ostacolo potrebbe esserci nel farsi dire, al di là di ogni teorema, che anche la Conoscenza lo è.
"Andando a fondo in queste considerazioni ci si accorge che l'intera economia è immersa in un oceano di fenomeni fondamentalmente legati all'ecosistema della comunicazione".
Questione: non sarebbe meglio avere un ecosistema dell'informazione? Voglio dire: se è vero, come è vero, come lo stesso Luca De Biase ci ricordava qualche anno fa ( qui le mie slide riassuntive di sei anni fa; questo il link - attualmente rotto - al Paper di Luca De Biase), che l'informazione serve il pubblico (il destinatario) e la comunicazione serve chi comunica (la sorgente), non sarebbe meglio servire i cittadini e, quindi, un ecosistema in cui regni l'informazione? Se la comunicazione è così deleteria perchè asservita ad una Istituzione, ad un Organizzazione, perchè non cercare di percorrere la strada del Bene Comune? cercando di evitare che il Bene Comune sia vittima degli strumenti comunicativi? A meno che la Comunicazione non venga intesa come il metodo attraverso il quale ogni cittadino può farsi capire dall'altro.
"La personalizzazione algoritmica di Facebook e Google provoca un'ipertrofia della comunicazione di idee all'interno delle cerchie di persone che le condividono a priori: questo è un freno all'innovazione."
Nessuna questione in questo caso, nessun dubbio ma soltanto una mirabile sintesi dei ragionamenti che spesso faccio sulla necessità di stare on the Edges: nello schema WIKiD il passaggio cruciale, infatti, si consuma nella realizzazione dell'innovazione proprio quando le persone entrano in contatto ai bordi della propria rete (nuvola) sociale attivando i legami deboli.
"La condivisione non del contenuto di un messaggio quanto del metodo con il quale è stato generato, conduce a un salto di qualità della comunicazione" e poi "Una piattaforma che richiami a ogni passaggio non solo la possibilità di approvare un messaggio e rilanciarlo nella propria cerchia ma anche di conoscere e criticare consapevolmente il metodo con il quale è generato può rilanciare la funzione innovativa della comunicazione" e infine "Si scopre che l'economia del comunicare sviluppa una quantità di opportunità per i servizi collaborativi. E dunque genera opportunità per la riduzione delle distorsioni connesse all'iperconsumismo e alle produzioni non sostenibili."
Mi rendo conto che la riflessione ha un campo di applicazione immenso. Io mi limito agli ambiti delle mie personali indagini: per metodo con cui viene generato il contenuto di un messaggio si intende, ad esempio, anche il metodo con cui viene scritto e distribuito un articolo di giornale (online)? Quella di affrontare il problema della insostenibilità è una questione riferita anche al modello di business per l'Editoria (digitale)? Potrebbe, quindi, essere risolutivo un modello (non di business, ma sociale) che condivida il metodo di generazione della Conoscenza tra tutte le parti in causa (chi scrive e chi legge, neutralizzando il più possibile il ruolo dell'Editore)? Se la risposta alle prime due domande è affermativa, credo lo sia ancora di più per l'ultima: il Modello Fotovoltaico, in effetti, è proprio questo: condivisione e relativa ricompensa, per tutti quelli che partecipano alla produzione di Innovazione e Benessere a partire da una semina di dati informativi.
"La crescita dei commons culturali sostenuta da Internet, che ne fa parte integrante, sembra contenere un messaggio implicito a favore della rigenerazione del ruolo dei commons nelle società colpite dalle crisi parellele del mercato e dello Stato. E, di riflesso, si nota che l'economia del comunicare si rilancia oggi se è capace di ricostruire tessuto sociale, fiducia, reputazione.
Tutto questo richiede innovazione. Un messaggio incoraggiante, per le persone di buona volontà"
Rimane sempre in me il dubbio: comunicazione o informazione? Ma forse questo ultimo passaggio lo risolve.
Io dico che, considerato che c'è molta gente che è consapevole della questione, occorre mettersi in contatto, perchè la buona volontà dei singoli non basta se non è condivisa, è inutile se ad essa non fa seguito un'azione concreta. Non basta che io legga un libro, non basta che ne discuta e/o condivida i principi per fare innovazione. In primo luogo, d'accordissimo con le istanze raccomandate da Luca De Biase, serve condividere un metodo. Con un'avvertenza: chiunque dica che occorre condividere il metodo di generazione del messaggio, deve poi condividere il metodo di geneazione del messaggio e agire come il metodo comanda! Se non si fa questo sforzo, l'ipotesi di lavoro viene negata nella sua essenza e, quindi, non è più credibile.
Per me, purtroppo: (a) non sono più credibili forze politiche come PD e SEL (che hanno, si!, condiviso il metodo delle primarie; il problema è che poi le cose non sono andate esattamente come era stato detto); (b) non è mai stato credibile il Movimento 5 Stelle (il metodo che Grillo dice di usare, non è quello che realmente usa); (c) non sarà credibile per troppo tempo ancora chi si chiude in una stanza per scrivere le regole della Democrazia 2.0, esortando a condividere dei metodi, con un metodo che non prevede la completa condivisione; (d) è ancora indigesta la delusione del RItaliaCamp di Milano, sei anni fa, in cui, chi diceva di condividere proposte, non fece nessuna proposta e chiuse il progetto.
Immagine: Università Popolare di Trieste