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Economia – Domenico Lombardini

Creato il 12 giugno 2010 da Viadellebelledonne

Economia – Domenico Lombardini

Prefazione di Francesco Marotta

Una poetica dell’incontro

   La cifra peculiare della scrittura poetica di Domenico Lombardini, il filo rosso che unisce in una trama unitaria le varie tappe del suo ancora breve ma già significativo percorso, condotto sempre con profonda discrezione e rigorosa attenzione ai presupposti e ai risvolti teorici del lavoro in fieri, è da ricercarsi nella presa d’atto dello snodo traumatico che la nostra epoca rappresenta, tanto sul piano etico che su quello culturale ed estetico, e nella piena consapevolezza, da cui la sua ricerca in gran parte si origina e si dispiega, che sia possibile trovare un punto di sintesi tra il rigore, le ragioni e la semplificazione ordinatrice tipica della scienza, e l’insondabile, ontologica, metamorfica refrattarietà che l’arte, in modo particolare la poesia, apparentemente le oppone.  

   La traccia che ne scaturisce proietta sul foglio i segni e la tensione tipica di una poetica dell’incontro, nella quale i due momenti, pur non dismettendo mai l’abito, gli strumenti e le coordinate concettuali che ne definiscono gli statuti, il senso e le procedure comunicative, si dispongono ad accogliere le reciproche alterità, in uno con la domanda implicita di verità da cui prendono le mosse e nella quale trovano esistenza e giustificazione, fino al riconoscimento della unicità della radice (“l’imperitura semenza del vivente”) da cui scaturisce la diversità e la singolarità degli ambiti, la specificità degli orizzonti in cui organizzano il loro discorso.

   In Economia, infatti, domina l’osservazione (non una statica frontalità, ma un riverbero di “onde concentriche” che “modifica l’oggetto”): irrinunciabile tappa di ogni percorso scientifico e normativo di avvicinamento al fenomeno e, nello stesso tempo, territorio interminato che l’oltranza del canto tenta e sgretola per sporgere oltre i margini, dove l’occhio non ha più categorie per definire la superficie e l’ampiezza della visione. Di conseguenza, mentre la mano dispone la materia poematica (il “miscuglio rivoltante” del presente) in gabbie metriche e strutture semantiche di geometrica aderenza al punto focale circoscritto, lo sguardo, contemporaneamente, si fa movimento, lampo che produce l’accensione lirica e il suo necessario contrappunto umbratile, come seguendo figure che si generano simmetricamente dal rovesciamento alternato degli specchi in cui si riflettono: un intero caleidoscopio di anticipazioni, di lembi fluttuanti di futuro che svelano l’irriducibile e sostanziale estraneità della lingua segreta delle cose alla unitaria e uniformante significazione di ordine razionale.

   La visione è duplice, leopardianamente intesa, ed è coscientemente condotta verso un approdo di valenza etica (cioè: radicalmente civile e politica), che è il portato naturale di un lavoro di rarefazione, di disincrostazione dell’inutile e dell’inessenziale (l’economicità del verso, che si erge a emblema dell’umano da riscoprire fuori e dentro di noi), di eliminazione degli accumuli e delle stratificazioni tanto dalla pelle del soggetto, quanto dai simulacri, cognitivi ed emozionali, a cui è ridotto l’universo con cui quotidianamente si relaziona.  

   Il reale ne esce modificato e rigenerato su ambedue i piani: gli oggetti, spogliati dell’artificiale urgenza reificante che li riduce a semplici materiali d’uso, mostrano tutta la loro fraterna e dolente contiguità con il volto, i suoni e i silenzi di chi da sempre li segue nel cammino dell’esistenza, trascorrendo di forma in forma insieme a loro; e il soggetto, infine, ricondotto a una funzione fatica da tempo dimenticata, o trasformata in puro veicolo di vuoto e insignificanza, riscopre la parola che preserva dal tempo, dice il mondo senza ridurlo a sua immagine e somiglianza, e la insegna alla sua lingua affinché ne faccia argine, sentinella vigile “ai confini della non presenza”.

*
inguaribile strabismo dell’osservazione – puntare
un dito frangendo uno schermo acqueo che riverbera
in onde concentriche i tocchi; così osservare
modifica l’oggetto, senza una possibile oggettività

*

non è questo il migliore dei mondi, diceva
- è forse il peggiore; l’altro ascoltava
e fissava la granulazione salivare sul labbro, non capiva

*

mi sono adagiato su un comodo reticolo,
e ho accettato senza riserve la consistenza
finita del corpo; poi ho creato nel mio addome
un’apertura, uno speco verminoso. venne un medico,
mi disse: è normale – non passerà.

*

ho pietà della mia coazione a ripetere
atteggiamenti-pensieri-stati mentali.
ho pietà della mia pietà.

*

l’aria non si fa abbracciare, con schiocco
le mie braccia chiudono circonvoluzioni
ridicole. solo ora mi accorgo: a loro basta
questo, la vìa sicura, il corso illuminato, il nodo
urbano del consumo, l’ingurgitamento;
il mondo è fango.

*

ognuno vorrebbe per sé e i suoi cari
un alveo di eternità. accogliere un corpo
si può, purché si adagi con cura
su una giusta lettiera di foglie. prego,
e solo pietà invèra
il mio dire. alcuni, per difetto,
costruiscono monumenti e dicono:
ecco, questa è la mia pietà, la croce
e l’altare, il salmo e la parola.
ma poco attecchisce di ciò che s’innesta; si finge questo.
ai confini della mia pietà, nessuna parola,
solo gesti, ostensione, mimèsi; e questo è imparato.

*

guardando alla vita appare possibile
una forma, la giusta. vano sembra
un conteggio di morti e ricerca di senso.
cose da fare: accettare il meschino,
il negletto putrescibile dei corpi.
eppure vorrei abbracciare, in una casa
proteggere gli affetti – uno a uno -
e i corpi, preservandoli dal tempo,
da questa ottusa abitudine a consumarci

*

correlato psicologico del post-fordismo: forma mentale
e abitudine al dolore della produzione. la macchina che produce
perde olio – sangue mai.

ab ovo

ho passato senza te i quattro angoli
soprelevati di questa città, una suburra
borghese; spolverini gialli senza pietà,
ortofrutta seriali, minutaglie giovanili
esiliate ai confini della non presenza,
onde canute olezzanti cadaverina
e profumo, un miscuglio rivoltante.
talora si sorride stupiti, ché si genera la vita
dalla morte… ho perlustrato da straniero
il mondo che ti aspetta, il milieu dell’umana
decadenza; poche radici irradiano
la loro sete sotto l’epidermide crostosa
dell’asfalto, sparute le corse di bimbi,
solo abbondanti facce di cera, non
la dignità del ritiro, l’accettazione della morte…
vogliono ancora godere, i relitti, arroccarsi
in trincee di silenzio e privilegio anche,
non vedono che il mondo sta morendo,
e fiorendo, sul limite della putrefazione
e del boccio; la tua vita deflagrante
li poltiglierà, proiettandoli nei loro loculi
esausti… la tua epifania renderà l’universo
còsmo, l’arbitrarietà volontà, l’inerzia
rabbia volitiva; la china entropica
si invertirà e il tempo collasserà;
il miracolo farà corollario alle leggi
della termodinamica; due più due
per una volta non farà più quattro;
un’eccezione allo scandire dei momenti,
delle fini di tutte le cose, la rivoluzione
di un inizio fragoroso, perché germogliato
dal nulla, dal poco, dall’imperitura
semenza del vivente, dal perpetuarsi
cocciuto e potente della vita, dal suo replicarsi
uguale e irrimediabile, seppur scoscesa
nella sua incolmabile differenza, arsa
dalla sua unicità, dal suo irripetibile accento…

*

segni ce n’erano stati; forse
ai profeti o
demiurghi professionali sfuggirono, per incuria…
lo spettacolo erano le vetrine, i
nuclei commerciali fiorire
non richiesti; non c’era domanda
di nuovo asfalto, né di cemento; ma
il bisogno è coltivato, innestato
pezzo su pezzo – margotte; il cervello, poi,
farà da sé; crederà alla legge
dei borghesi – invidia la pagliuzza
soprannumeraria del vicino; anche il gregarismo
fra cenciosi, poi, alla caccia del diverso, non
evidentemente bianco, in branco. le anime ricciute e camuse
che popolano questo Paese sono un futuro,
un’umanità – adesso.

*

se questo non è autoritarismo: facce,
facce sfacciate, culi scrannati dicono
perentori e programmatici NO; ci sono
i giornali, la televisione, una
plu-ra-li-tà – di assensi, l’ossequio
codino al potere. il potentato non
usa tacchi di ferro; sente
che la coscienza è etero-
diretta, lo stupro quotidiano; e pedagogico…
i bimbi bambi babucciano
pauriti, allungano manine, gli cadon
sulla cucurbita anatemi e direttive,
sbavan richieste; e mai che genitori
emettano un zinzino NO, non
vogliono incorrere in pueritraumi…

coscienza sociale

un occhio fenditura acuta
vorrei che fosse il mio occhio
come lancia nel futuro che
vaticinasse il giusto.
l’aruspicina non è la nostra scienza,
ma si interpretano solo segni terreni
e terra rimane nelle mani, ne cadono
a grumi. non resta che questa
anodina promessa: coltivami e
ne sarai alleviato, l’allodinìa
calmerà al fine. ma vedi che
il dolore non passa, preme col dito
sulla cute belluina lasciando chiazze
digitali blu che persistono oltre
il giusto. non vedi che questo
si nutre di te? non vedi che ride
mentre sbafa dilatandosi? non vedi?
si accetta tutto per le lire, le poche, per
sentirsi conformi alla mano che
dirige la tua volontà: l’acquistare è
un bel godere, quel poco anche.

*

buona giornata, buono giorno: kàlimèra
anche a te; giorni, allora, erano di polìmeri,
plastiche che impetrarono per sempre purulente la nostra vita…
contaminazione fu da sotto, dalle suole
saliva, imbibendo piedi e gambe, il bando
della necessità: vergogna divenne una mano
che chiede, l’intimità sottesa al soccorso, la
domanda d’aiuto. ora le cause sono effetti,
un magma irrisolto, regna l’entropia. si sottostimano
le cause, i veleni le cui assuefazioni
obliterano la comprensione, la soglia
di dolore. la pedagogia devastante: consuma:
o sarai consumato.



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