Ho trascorso tutta l'estate a casa, tra i lavori domestici e l'intreccio di fili colorati di parole. Fin dal mattino anelavo alla sera, a quel fresco che, finalmente, settembre ci ha regalato. Soltanto nell'ultimo scorcio di agosto, mi sono regalata qualche giorno di “divertimento”.
Sospesa tra la terra e il cielo dell'Umbria, ho ascoltato il cambiamento incessante della vita che si percepisce più distintamente quando in un intervallo di tempo, seppur minimo, si gode di un altro spazio. Mi sono allora ritrovata a Trevi, dove si teneva un convegno promosso dall'associazione Ore Undici http://www.oreundici.org/. Mi aveva trascinato lì il fascino delle parole chiave oggetto dell'incontro: Passione e Tenerezza. (http://www.oreundici.org/incontrin/2012/convegno_estivo_2012.shtml )
Tra le relazioni che ho ascoltato, tutte interessanti, una mi ha addirittura commossa. Quella dell'economista Luigino Bruni, che ha trattato “I bisogni e il desiderio dell'uomo al centro dello sviluppo economico”. Sappiamo tutti quanto l'Economia sia oggi l'argomento più discusso dei media e della vita quotidiana. Troppo in fretta sono andati in circolazione termini tecnici che non ci sono ancora chiari. Anzi, proprio l'incompetenza linguistica nell'ambito economico - incompetenza che in realtà equivale ad ignoranza e, quindi, a incomprensione dei fenomeni economici - alimenta in noi un senso di angoscia e di sfiducia.
Ebbene, il professor Bruni, con chiarezza e sentimento, ha raccontato l'economia come il luogo “delle passioni, dei bisogni, dei desideri, dei vizi e delle virtù umane”. La narrazione era appassionatamente sostenuta dal suo amore per la lingua e la letteratura. Proprio come un esperto narratore ha creato una storia con un punto di massima tensione: fino a pochi anni fa, nell'era dell'economia industriale, pur nella “eterogenesi dei fini”, tra il ricco e il povero sussisteva una reciprocità di interessi, in virtù della quale “il vizio del ricco diventava una virtù”. La Nuova Economia, invece, ha interrotto questo rapporto, generando lo squilibrio economico che attualmente ci spaventa. Ma Bruni non si è limitato ad una disamina storico - economica e ad illustrare come l'economia attraversi pure tutta la storia della Chiesa, a partire dall'idea del “giusto prezzo” sorta nei monasteri benedettini. Egli è stato anche in grado di individuare e spiegare con pacatezza e sentimento il fenomeno più doloroso del nostro tempo: “la dicotomia tra economia del dono ed economia del profitto”.
Occorre qui intendere che l'atto del “donare” è connaturato alla nostra vita, necessariamente protesa allo scambio. Senza il “dono” è impensabile la vita sociale. Anche il lavoro contiene un margine di “dono” che non potrà mai essere del tutto quantificato o ridotto a mero profitto. È il “plusvalore” della “gratuità” che ci fa umani.
L'affermazione di Bruni che mi ha commossa e ha rafforzato in me la convinzione che l'uomo non sarà mai ridotto a merce è, pertanto, questa: “L'uomo è gratuità”. A questo punto il relatore non ha tralasciato di ricorrere all'etimologia di “gratuità”. Il vocabolo deriva dal latino “Gratia”, greco “Χάρις (Chàris), e designa “Grazia, Bellezza, Armonia”. Inoltre, dal greco “Charis” è derivato il latino “Caritas” (con la perdita dell'aspirazione) che si divide tra il campo semantico dell'Economia e quello dell'Amore. Nel senso di Amore, Caritas equivale al greco ἀγάπη (agàpē), ovvero “amore incondizionato”.
Da questo momento in poi ho trascurato il taccuino e la penna e mi sono abbandonata all'ascolto con “passione e tenerezza” per me e per tutti gli esseri umani. Basta l'amore per cambiare il mondo. Se lavoro con amore, il mondo cambia, in qualsiasi mansione io sia impegnata. Ma quel di più che fa l'Amore non può essere quantizzato. Bruni ha detto bene: nessun dirigente o datore di lavoro dovrebbe rivolgersi ad un dipendente dicendogli: “che vuoi di più? per questo lavoro io ti pago”. Questa affermazione manca del riconoscimento di quella “gratuità”, ovvero “grazia” ovvero “amore” impagabili. Sicché, come ha ribadito Bruni, senza riconoscimento non c'è quella riconoscenza, della quale noi, esseri umani, abbiamo pur sempre bisogno, in nome di quella reciprocità del dono che dovrebbe rifondare il consorzio umano nell'era globale. Ma, per questa grandiosa opera, è necessario il contributo responsabile degli individui che, come ha affermato ancora l'economista, devono scoprire il loro δαίμων (dàimōn). Questo vocabolo greco unisce il campo semantico del sacro nel senso di “destino” inteso come “vocazione”, con quello economico della “giusta distribuzione” .
Si ritorna così ad un antico invito: “conosci te stesso”. E questa conoscenza, di per sé appagante, ci restituisce la sacralità della nostra unicità. Il senso di pienezza vissuto nell'atto di riconoscersi non verrà meno neanche se saremo costretti a svolgere un lavoro lontano dalle nostre aspirazioni a causa della contingenza economica. Ma non per questo smetteremo di ascoltare la nostra vocazione. Vorrei concludere però con questa postilla: al “conosci te stesso” corrisponde reciprocamente il “riconosci l'altro".
In una società fondata su “riconoscimento e riconoscenza” sarebbero valorizzate le vocazioni e le competenze per un benessere condiviso, ben più vantaggioso di quello ristretto ed iniquo della “economia del profitto”. Forse la nostra Italia, e non solo, soffre la decadenza per aver misconosciuto e disprezzato il sacro dàimōn di ogni essere umano.