Magazine Psicologia
Rossella Valdrè Le tre facce di Edipo
Qualcuno, come gli artisti e i poeti, sanno stare più in compagnia del loro Tiresia interno, gli vogliono più bene; altri devono fare gli psicoanalisti, o sottoporsi all’analisi, e fanno comunque molta fatica...i più restano ciechi, non vedranno mai. Esclama Tiresia: «Va via di qui, maledetto! Tu ucciderai tuo padre | e sposerai tua madre» Può il soggetto umano non essere cieco a questo? Scrive Josè Saramago in Cecità, dove i personaggi a uno a uno diventano tutti ciechi (o meglio: vedono bianco, cioè il negativo direbbe Green): «Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo». L’Edipo di Branciaroli propone una lettura audace: anche se forse non lo sa con la coscienza, Edipo sa di non essere del tutto cieco, di essere anche l’oracolo, colui che conosce, colui che vede, pagando tutto il prezzo di questa penosa consapevolezza.
Ma ecco che in un rapido cambio di scena, Edipo compare improvvisamente denudato, in guepiere e seducenti scarpe rosse, un largo cappello elegante et voilà! ecco Giocasta. Enigmatica, seduttiva, sottilmente omertosa: «Ti scongiuro: se pensi alla tua vita, non impazzire in quest’indagine. | Sto già abbastanza male, io». Giocasta insiste finché può nel dissuaderlo: ma cosa vai cercando, stiamo bene così… perché ti danni a voler sapere? Col suo provocante reggicalze, Giocasta è l’ingombro osceno, insopportabile e inevitale della seduzione materna; ma poiché essa è pur sempre Edipo, Giocasta è psicoanaliticamente anche un’altra parte del Sé, di quel povero Sè frammentato dell’eroe greco che tutti noi siamo: la parte opposta a Tiresia, che non vuole sapere, non vuole conoscere. "Nel fantasma di seduzione – scrivono Laplanche e Pontalis – (sta) l’origine della sessualità, come nella scena primaria quella del soggetto, e nella castrazione la differenza tra i sessi". Il fantasma di seduzione. L’ombra larga del cappello di Giocasta troneggia sullo sfondo: la Madre copre tutto, tutto adombra.. Il Cristo del Mantegna, che anch’esso per un attimo appare sullo sfondo (iconografia che, come detto poc’anzi, Pasolini prese a modello nella morte del ragazzino in Mamma Roma) è il figlio sacrificato sull’altare materno; il sacrificio di ogni figlio.
È solo una finestra, questa, sul molto che si è detto e scritto su Edipo. Solo una finestra sull’intuizione creativa della coppia Branciaroli-Calenda che con pochi oggetti di scena e il massiccio corpo dolente di Edipo, offrono allo spettatore una rappresentabilità non scontata, non ovvia: c’è tutto in noi. C’è il Tiresia che spinge a conoscere – il K bioniano – c’è l’incontro avvolgente col piacere della seduzione materna, delle fantasie incestuose, mortifere e contrarie al conoscere (Giocasta, è noto, si suiciderà). Unificate nello stesso attore, è come se tutte le colpe, tutto ciò da cui si origina, sgorgasse primariamente da lì; la scissone sarebbe allora solo consequenziale, solo secondaria, adattiva alla sopravvivenza. Ci accomiatiamo dallo spettacolo toccati da una profonda e composta pietas. Edipo: «Dio m’ha cancellato. Sono carne oscena. A letto con mia madre. Peso atroce. Se c’è degradazione che degrada a farlo, | ecco, quello è eredità di Edipo».
http://www.rivistapsicoanalisi.it/index1.php?PG=rir&n=rir_11_1/rir_11_1_03&lang=
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