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Edipo re e la tragedia greca

Creato il 04 gennaio 2016 da Cultura Salentina

4 gennaio 2016 di Dino Licci

Oidipous sphinx MGEt 16541 reconstitution.svg

“Oidipous sphinx MGEt 16541 reconstitution” di English: Oedipus Painter – User:Juan José Moral, Opera propria, 2009-02-27. Con licenza Pubblico dominio tramite Wikimedia Commons.

Sulla figura di Edipo, non tutti i tragediografi greci si trovano d’accordo e lo stesso Omero lo vuole figlio di Epicaste e non di Giocasta.

Alcune differenze caratterizzano la narrazione che ne fanno: Sofocle nell’Edipo re e nell’Edipo a Colono, Eschilo nei Sette contro Tebe o Euripide nella Fenice. Per non confonderci quindi ci converrà  rifarci a quanto ci racconta uno solo di questi grandi del passato.

Fermiamoci quindi sull’Edipo re di Sofocle ricordandoci che la struttura portante della tragedia greca si basa su:

un  Prologo che da inizio alla rappresentazione;

una Parodo che introduce il coro,

gli Episodi, la parte dialogante degli attori;

gli Stasimi, che servono a separare i tanti episodi.

L’Esodo o scena finale talvolta accompagnata da un “deus ex machina”  che chiarisca un intreccio troppo complicato.

Il prologo di questa famosa tragedia ci mostra Tebe devastata  da una pestilenza mentre il popolo invoca Edipo, suo re, perché si adoperi a salvare la città da tale calamità. Ma Edipo avrà già provveduto a chiedere lumi all’oracolo di Delfi a mezzo di Creonte, fratello della regina, e la risposta non si fa attendere. Creonte infatti riferirà che la città sta pagando  la circostanza che in essa vive ancora impunito l’uccisore di Laio, precedente re di Tebe. Laio sarebbe stato ucciso proprio sulla strada di Delfi da alcuni briganti che lo avevano assalito.

Col parodo entra il coro costituito da anziani tebani che, cantando, invocano gli dei  perché vengano in aiuto della loro terra.

E qui cominciano gli episodi dove gli attori  dialogano intervallati dagli stasimi, durante i quali si esprime il coro:

Nel primo episodio, Edipo, dopo aver promulgato un bando con cui condanna all’esilio l’uccisore di Laio, comincia ad interrogare l’indovino Tiresia per conoscere l’identità dell’assassino. L’indovino però, pur essendo a conoscenza che proprio Edipo è l’inconsapevole assassino di Laio ed ancora che quest’ultimo era il suo vero padre, dapprima si rifiuta di rispondere, poi gli rivela la verità, suscitando naturalmente l’ira del re che  comincia a credere che Tiresia stia tramando contro di lui insieme con Creonte. L’episodio si chiude con la profezia di Tiresia che racconta come, entro la fine del giorno, il colpevole, ormai scoperto, si allontanerà, cieco e mendico, dalla città.

Col primo stasimo, il coro inizialmente immagina Edipo fuggitivo, poi si ricrede, ritenendo che Tiresia questa volta abbia sbagliato nella sua profezia;

Nel secondo episodio assistiamo a una lite tra Creonte ed Edipo sedata da sua moglie Giocasta che, per tranquillizzare il re, gli dice di non credere alla profezia. Infatti  anche al suo primo marito Laio era stato predetto che sarebbe stato ucciso dal figlio mentre era avvenuto che fosse stato ucciso da un brigante sulla strada di Delfi.

Un primo dubbio si affaccia nella mente di Edipo, che subito chiede che venga convocato il testimone di quell’avvenimento. Giocasta, accortasi del turbamento del marito, gliene chiede ragione ed Edipo le racconta di come l’oracolo di Delfi gli avesse predetto che avrebbe ucciso il proprio padre e sposata sua madre. Per sfuggire a questa profezia, egli aveva abbandonato Corinto governata da suo padre, il re Polibo, ma, sulla strada tra Delfi e Tebe, dopo un litigio per ragioni di precedenza, aveva ucciso un uomo. Si fosse trattato di Laio?

Il secondo stasimo ci mostra il coro ammonire Giocasta per la sua incredulità verso gli oracoli. Chi non crede alla giustizia divina si macchia di tracotanza (ὕβϱις) e verrà punito.

Col terzo episodio entriamo nel vivo della tragedia laddove un messo annuncia la morte di Polibo che Edipo credeva suo padre. Per Edipo non è una cattiva notizia perché questa è la prova che l’oracolo si era sbagliato: egli non poteva aver ucciso suo padre! ma la seconda parte della profezia che voleva ch’egli avrebbe sposato sua madre? Neanche questo è possibile, lo rassicura il messo, perché i sovrani di Corinto non sono i suoi  veri genitori: egli stesso aveva ricevuto da un servo di Laio un bambino  legato con due fori praticati nelle caviglie (Edipo significa appunto piede gonfio) perché lo si uccidesse.  Invece il servo lo aveva consegnato al  messo, che al tempo faceva il  pastore sul monte Citerine. Quest’ultimo lo aveva portato a Corinto, dove appunto era stato adottato dai reali!!!

Edipo deve sapere la verità e chiede che sia portato al suo cospetto il servo di Laio. Giocasta  invece non ha più dubbi ed intuita la verità, supplica il figlio-marito di non fare più indagini,  ma inutilmente.  La tragedia è al suo culmine.

Il terzo stasimo ci mostra il coro esultare perché si sta scoprendo la Verità!

Col quarto episodio  il servo di Laio, tempestato di domande, chiarirà come avesse disatteso l’ordine di Laio di uccidere il bambino  e come l’avesse consegnato ad un pastore, che lo aveva condotto a Corinto. Tutto è ormai chiaro. Edipo, al colmo dell’orrore, decide di accecarsi prima di andare in esilio come egli stesso aveva ordinato come punizione per l’assassino di Laio.   

Col quarto stasimo il coro, formato dagli anziani tebani,  compiange il generoso re che inconsapevolmente si era macchiato di atti orribili.

Edipo  infatti, giunto a Tebe, aveva salvato la città dalla Sfinge, un mostro che divorava tutti i suoi abitanti. Risolvendo un indovinello, Edipo aveva sconfitto la Sfinge e, per riconoscenza,  Creonte aveva affidato la corona ad Edipo, cui sarebbe stata offerta in moglie anche Giocata,  vedova di Laio. La profezia si era avverata, la  stessa profezia che aveva indotto Laio a tentare di ammazzare il figlio perché essa non si realizzasse!

Con l’Esodo, la tragedia si conclude: un messo annuncia che Giocasta sì è impiccata e che Edipo si è accecato. Creonte cerca di consolarlo e di avere fiducia in Apollo,  ma il re abbandona la città dopo aver compianto la sorte delle sue figlie, nate da un amore incestuoso e perciò destinate ad essere invise agli dei e agli uomini.

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La tragedia greca ha sempre un suo significato recondito, una sua morale ed un suo monito: In Edipo re assistiamo ad un repentino cambiamento delle sorti dell’uomo che può passare, nell’arco di poche ore, dal culmine della fortuna ad una terrificante tragedia. Egli non può sottrarsi al fato perché tutto è regolato dagli dei (sembra quasi di scorgere in questa visione della vita, l’armonia prestabilita di  un Leibniz  ante litteram!)  Eppure egli viene punito dalla sua tracotanza quasi fosse responsabile di quanto era già stabilito. C’è una contraddizione in questa doppia verità? Vediamo cosa ne pensava a proposito Friedrich Nietzsche che, prima di diventare filosofo, era stato un grande filologo: Egli, nel suo primo libro “La nascita della tragedia”individua le due componenti tipiche dell’animo umano, riportabili a due deità contrapposte nella loro più intima essenza: Apollo, cioè la misura e l’equilibrio che si esprimono  con la musica e Dioniso, la sregolatezza e l’estasi che in arte si rappresentano con la scultura (pensiamo al gruppo marmoreo del Lacoonte!).

Ebbene , secondo il filosofo, la tragedia è la perfetta sintesi di queste due componenti dell’umanità  che anelava a raggiungere la serenità e l’armonia che regnavano nel panteon olimpico senza tuttavia riuscirci. Non a caso gli stasimi ci mostrano un coro formato da una folla d’invasati che rappresentano la componente più cruenta, istintiva ed ancestrale della natura umana.

Gli stasimi si intercalano agli episodi dove  i personaggi ritrovano la loro componente razionale. Il mondo dionisiaco, con le sue danze e le sue sfrenatezze, conduce l’uomo ad immedesimarsi nella natura, a fondersi con essa in un connubio che lo distruggerebbe se non intervenisse la sua componente apollinea, la prudenza che  assurge ad un significato salvifico per un’umanità che affogherebbe nei suoi istinti primordiali.

La tragedia greca sembra  quasi racchiudere un preludio di quel pensiero  freudiano che individuerà nell’es e nel super-io le componenti antitetiche dell’uomo che entrerebbero in un disastroso cortocircuito se non fossero mediate dall’Io che ne impedisce lo scontro cruento. Nietzsche interpreta la tragedia greca come la capacità del mondo antico di superare l’antinomia connessa alla sua stessa indole e, superando  la visione pessimistica di Schopenhauer che vuole l’uomo assoggettato al suo destino, ci propone come esempio un uomo che, invece di contrastare i suoi istinti atavici, li assecondi con l’ausilio della volontà così come seppero fare i greci con la creazione del teatro e della tragedia. L’uomo moderno, irretito dalla sua  rafforzata razionalità da un lato, da un imperante misticismo dall’altro, saprà trovare un antidoto alle sofferenze che affliggono il suo altalenante divenire? O forse davvero “In principio era la gioia” come si legge  nel famoso libro del teologo eretico Mattew Fox? Dino Licci


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