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UN VERO TSUNAMI GLOBALE. Il declino della carta stampata non è solo un affare italiano. O, per lo meno, non è solo affare dei Paesi Piigs (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna), alle prese con la recessione economica. Piuttosto, la crisi dell'editoria è uno tsunami globale, che spazza via i vecchi modelli, anche dove, come in Germania o in Gran Bretagna, le vendite delle testate a rischio o in fase di smantellamento sono ancora di tutto rispetto e il prodotto, tutto sommato, è buono.
IL CALO DELLE INSERZIONI. Il problema è soprattutto il fatto che la pubblicità scarseggia. I lettori, complice la diffusione dell'informazione in mobilità - grazie a smartpone e tablet - e il calo degli stipendi, si informano sempre più su Internet. E il gioco, per gli investitori, sembra non valere più la candela.
Qualche anno fa, un decano del giornalismo come Philip Meyer - classe 1930 - parlò del 2043 come dell'anno in cui il New York Times avrebbe pubblicato la sua ultima copia cartacea. Di questo passo, la vendita nelle edicole di testate storiche come l'inglese Guardian o lo spagnolo El Pais potrebbe cessare molto prima. Altro che Padania, L'Unità o Il Riformista.
Spagna e Germania: giornali chiusi e redazioni smantellate
Oltre all'Italia, dove gruppi nazionali come il Corriere-Rcs e la Repubblica-Espresso o anche Mondadori e Il Sole 24Ore progettano tagli al personale e nuove ristrutturazioni per svariati milioni di euro e centinaia di dipendenti, la Caporetto dell'editoria è drammatica in Spagna. Dal 2008, 57 pubblicazioni iberiche sono state chiuse e più di 6.200 giornalisti hanno perso le loro scrivanie. Tra i licenziati, ci sono i 129 redattori del Pais, liquidati questo novembre via mail. Per far fronte al crollo delle vendite e della pubblicità, il quotidiano più diffuso del Paese ha annunciato la riduzione di un terzo dei dipendenti.
FREE PRESS SENZA PUBBLICITÀ. Poi c'è il dramma del Mundo, fardello di Rcs con 130 giornalisti licenziati nel giugno scorso e 20 milioni di pubblicità persi, nei primi sei mesi dell'anno. Senza contare, come in Italia, la chiusura di quotidiani d'opinione come Público o dei fogli free press come Qué e Metro. In Germania e in Svizzera dovrebbe andare meglio, con quote di lettori superiori al 70% della popolazione. E invece no.
LA SCELTA DOPO 12 ANNI DI DEBITI. Gruner + Jahr, editore della versione tedesca del Financial Times, ha annunciato l'ultimo numero del quotidiano economico, il 12 dicembre prossimo: dopo 12 anni di debiti, meglio metterci una pietra sopra, pagando 40 milioni di euro in liquidazioni ai circa 330 dipendenti, che non scriveranno più neanche pezzi per l'online.
GERMANIA, CHIUDONO I GIORNALI. Uno choc per i lettori che, solo pochi giorni prima, avevano ingoiato la notizia della resa della Frankfurter Rundschau, storica testata di sinistra in mano alla holding finanziaria dei socialdemocratici (Ddvg).
A novembre, la proprietà del quotidiano ha portato i registri in tribunale, per dichiarare l'insolvenza. Negli ultimi cinque anni, aveva perso tra i 15 e i 20 milioni di euro. Poi, l'annus horribilis del 2012, che, senza un nuovo acquirente, trascinerà in strada oltre 500 dipendenti.
Francia e Gran Bretagna: i travagli di Libération e del Guardian
In Germania, anche la Dapd, seconda agenzia di stampa tedesca, ha deciso il taglio di 100 posti di lavoro. Mentre, nella ricca Svizzera, con le perdite di copie, anche i quotidiani Les Temps e il Giornale del Popolo hanno avviato ristrutturazioni.
EVITATE LE CHIUSURE SELVAGGE. Sostenuta dagli aiuti di Stato più corposi d'Europa (circa 1,2 miliardi di euro l'anno), finora l'editoria francese ha arginato i tagli pesanti e le chiusure selvagge degli altri Paesi, nonostante le vendite siano in netto e progressivo calo dagli Anni 80, per una quota di lettori ormai assottigliata, come in Italia, attorno a un misero 46%.
Ma, in tempi di magra, come già in animo da Nicolas Sarkozy, il governo di François Hollande studia di rivedere i finanziamenti che apriranno altre crisi nelle redazioni, oltre a quella che, lo scorso febbraio, ha visto il quotidiano economico La Tribune, in cattive acque dal 2008, chiudere i battenti del cartaceo per traslocare solo online.
IL ROSSO DI LIBÉRATION. La cura da cavallo multimediale ha dimagrito il personale non giornalistico da 165 a 50 dipendenti e più che dimezzato i redattori da 78 a 31 assunti. In bilico, pronto a cadere, c'è Libération, vessillo della sinistra d'Oltralpe con vicissitudini simili all'italiana Unità.
In gravi difficoltà economiche dal 2006, il giornale sessantottino fondato da Jean-Paul Sartre è finito in mano al rampollo Edouard de Rothschild che, nonostante il piano di ristrutturazione, non ha risanato i conti.
Se Libération sparisse dalle edicole, l'addio sarebbe traumatico quasi quanto quello dell'inglese Guardian, dal 1821 storico simbolo dell'indipendenza della stampa liberal dai partiti politici. In affanno da anni e alla prese con profondi tagli del personale, a ottobre i rivali del Telegraph ne hanno addirittura annunciato l'«imminente chiusura dell'edizione cartacea».
IL GUARDIAN ARRANCA. «Niente di più falso», hanno ribattuto i proprietari, «i tempi non sono ancora maturi». Eppure, nonostante l'ottima qualità, dal 2008 al 2012 le copie vendute nelle edicole sono crollate da 380 mila a 210 mila, a fronte di utenti unici online balzati da 15 a 70 milioni.
Un cambio di rotta evidente quanto inarrestabile, confermato, in Gran Bretagna, dai venti di ristrutturazione che spirano nel gruppo del Daily Mirror. Senza citare il crollo dell'impero di Rupert Murdoch che, con gli scandali intercettazioni, un anno fa ha fermato le rotative del tabloid News of the World, dopo oltre un secolo e mezzo di avventure.
BYE BYE NEWSWEEK. Era il luglio 2011 e Newsweek, illustre magazine statunitense finito in panne, sembrava essersi risollevato con il promettente ingresso nella società del Daily Beast di Tina Brown. Tutti palliativi. A quasi 80 anni compiuti, l'ultima sua uscita cartacea è stata fissata per il 31 dicembre 2012.
Fonte: Lettera43
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