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EDITORIALE: Vent’anni fa moriva la speranza del pensare diverso

Creato il 25 ottobre 2011 da Eastjournal @EaSTJournal

di Vittorio Filippi

EDITORIALE: Vent’anni fa moriva la speranza del pensare diverso

Esattamente vent’anni fa non si rimescolava solo la geopolitica del mondo attraverso l’agonia e la morte dei paesi dell’est, in primis l’Unione Sovietica, che di quei paesi era bene o male il leader per così dire storico. L’autunno del 1991 segnava infatti i sussulti e le tensioni – senza particolare pathos ideologico – dei due paesi che pure avevano tentato – anche se a modo loro – di sperimentare la strada teorizzata da Marx un secolo e mezzo prima: appunto l’Urss con il suo socialismo di impianto leninista e la Jugoslavia con il suo differente socialismo autogestionario.

Entrambi questi paesi si sfaldarono: il primo con l’accordo di Belaja Veza dell’8 dicembre in cui i leader russo, ucraino e bielorusso chiusero con l’esperienza sovietica creando la vaga formula della Comunità di Stati indipendenti, il secondo sprofondando in un decennio di violenze ancora non del tutto rielaborate.

Ma al di là degli Stati ciò che affondava era l’idea stessa del comunismo come possibile, radicale alternativa al modello capitalistico oggi pressoché ovunque adottato. Il crollo dei paesi socialisti di vent’anni fa – ed il loro lungo, precedente logoramento – ha infatti talmente screditato da un punto di vista ideale e simbolico il comunismo da averlo presto accantonato tra le idee polverose quanto inservibili della storia novecentesca.

Negli stessi paesi detti ex socialisti la presenza di una sinistra marxista (e spesso di una sinistra tout court) è oggi del tutto irrilevante e marginale. L’insoddisfazione sociale (il “capitale di rabbia”) infatti è stata con più efficacia catturata da partiti di destra o di centro spesso a forti tinte xenofobe, populiste e nazionaliste. Anzi, negli anni novanta il nazionalismo è stato (l’ex Jugoslavia docet) il diffuso strumento di riciclo di tanti leader e di tanta nomenklatura ex comunista che hanno disinvoltamente cavalcato la transizione dei loro paesi. Lo stesso partito comunista russo di Zjuganiov, a torto considerato l’erede del Pcus, ha fin dall’inizio abbondantemente infarcito la sua ideologia con un patriottismo grande-russo e panslavo che con l’internazionalismo marxista ben poco ha a che fare.

E nei paesi occidentali, colpiti da tempo da una crisi che da economica sta divenendo sociale ed anche antropologica e che sta mettendo a dura prova le tante promesse del capitalismo e dei suoi cantori-ideologi, l’idea di una via alternativa predicata dai variegati epigoni di Marx non raccoglie, per ora, consensi e adesioni. E nemmeno, a dire il vero, una pur minima curiosità intellettuale. Segno ulteriore della irrilevanza, della evidente “in-credibilità” del progetto comunista e della sua declamata, totale alternatività all’attuale status quo socioeconomico. Infatti la convinzione diffusa è che, tutto sommato, dai malanni finanziari (francamente oscuri, vista la confusione delle diagnosi) del capitalismo si possa uscire con terapie ancora solo capitalistiche, magari mescolando creativamente (cioè caoticamente) ricette keynesiane, dosi di buonismo etico e proposte neoliberiste. Quanto alle conseguenze sociali, specie nel lungo periodo, la scienza economica – confermandosi come “scienza triste” secondo la definizione di Carlyle – appare impacciata ed avara di soluzioni.

Comunque, per il resto, nulla. L’idea di una palingenesi radicale o, più modestamente, di una strada non capitalistica di sviluppo non appaiono né convincenti né popolari, nemmeno tra quella classe operaia (la “classe generale” indicata da Marx) che di quella strada dovrebbe essere la regista e la beneficiaria. Certo, nei paesi dell’est – ma non in tutti – il socialismo reale riappare rassicurante nella dimensione emotiva del rimpianto (come nella jugonostalgija balcanica), ma questo vale quel che vale. Rimane invece il fatto che l’89 ed il conseguente ’91 non solo hanno spazzato via il ’17 e l’Ottobre con relativa mitologia, ma hanno ridotto oggi a ben poca cosa la speranza in un progetto di un “pensare diverso” dai canoni apparentemente “naturali” del capitalismo, di una utopia che potesse realizzarsi e divenire eterotopia. Un progetto capace insomma di indicare – come faceva la mano tesa verso l’orizzonte delle statue di Lenin – un futuro diverso. E migliore.


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