Edoardo De Candia
di Augusto Benemeglio
Edoardo fu il primo figlio dei fiori del Salento, uno di quelli che fate l’amore non fate la guerra… (“Solo amore amore, niente altro, solo amore. Senza amore noi muti rabbrividiamo”), ma non ha mai mosso un dito per fare qualcosa di concreto, con costanza, con applicazione, con serietà. Niente. “Solo pittare, sempre pittare, e lavorare mai”?, gli dicevano padre e madre. Ha fatto di tutto per annientarsi…Alla fine i genitori lo hanno fatto rinchiudere in manicomio e così sono riusciti a fargli perdere quel minimo di contatto con la realtà, realtà che non capiva e non amava (“I miei genitori erano colpevoli, ma i medici erano ancor più fessi e colpevoli di loro”).
Lecce gli stava stretta, lo soffocava. E allora eccolo a Roma, la Roma della dolce vita di Via Veneto, delle trattorie e delle baldorie trasteverine, delle passeggiate sotto i platani barocchi, i musei foderati di travertino. Si beveva e si leggevano poesie con Carmelo Bene e Ugo Tapparini, si leggeva spesso “Il poeta contumace” di Corbiere tradotto dal grande Vittorio Pagano, quello dell’atto definitivo. Si beveva e si andava a donne, si beveva e si pittava, si faceva arte…. Con la vendita dei nostri quadri Carmelo affittò il teatro — laboratorio in via Roma libera dove ci fu la prima minzione in pubblico da parte di Alberto Greco, il pittore argentino morto suicida a Parigi, e subito dopo quella dello stesso Bene. Edoardo dormiva, o stava sotto i monumenti, gli archi e le colonne, pieno di stupore, come un gatto randagio o un Cristo a ridere, a gola aperta e denti scoperti.
Opera di De Candia
Molteplice e simultaneo, nodo continuo e vitale. Insonne fumatore che dialogava con i merli e dava da mangiare ai piccioni di piazza Duomo, che gli facevano ressa attorno, gli facevano un concerto d’ali, un comizio grigio, come a un San Francesco salentino. E lui rideva, rideva con la bocca ormai sdentata, e non sapeva più dove mettere la lingua. E quella pancia dilatata e orribile, quel viso ultimo stravolto, muto, assente.
Maledetta puttana della morte, eccolo il Cavaliere nero, stremato, l’ex gigante, il vikingo di via Monte Sabotino che fa rutti e scorregge ad ogni angolo di strada, il cavaliere visionario con la carne nera e bucata, pieno di pustole, pus e sangue, e croste di sabbia. Eccolo, il più talentuoso dei pittori leccesi, il pattinatore folle dei marciapiedi, il pettinatore delle comete d’agosto che dipinge nudo i suoi nudi quadri, le suo opere d’arte tra l’informale e il materico, e l’arte del corpo, eccolo col foglio di carta a terra, pieni di cerchi spezzati e colori intensi, segni folli, accesi, malati, eccolo che dà pennellatacce rosse e disperate (“il rosso è il colore del fuoco, del sangue, del vino, della vita”), e lui, maldestro gigante, brutto e cencioso, con il culo di fuori e lo scroto pencolante (“Io sto sulle palle a loro e loro mi stanno sulle palle a me”)
Eccolo “nel vano tentativo, durato tutta una vita, di trascinare nel maleodorante antro angusto la radiosa aristocrazia del mare e gli spazi profumati di luce, dei boschi, con il vento che lievemente gli accarezzava la bella chioma stinta di alghe selvagge”. E poi fuori da quel tugurio eccolo per le strade di Lecce lungo la teoria, la processione dei Bar, ormai tutti chiusi per lui, Santo Bevitore, tranne uno, che non vuol far sapere chi è.
No, non era un bel vedere questo mendico cencioso, questo carro armato di stracci e di sporcizia che si spostava da una strada all’altra della città, ormai privo di sé e di qualsiasi aggancio con la realtà. L’avevano voluto pazzo a tutti costi e tale s’era ridotto, dopo centinaia di elettroshock, anni di ricoveri, migliaia di sedativi e docce fredde. Era ormai per tutti lo scemo del villaggio, il pazzo di Lecce.
Un tempo prendeva la strada per il mare, a San Cataldo, undici chilometri di timo, di odori di sabbia, per fare il bagno nudo integrale, e dipingere qualche marina, un viaggio nel colore, con le cabine senza pareti, e il mare che debordava nel vuoto che delimitava i grandi fogli da disegno, e poi il disegno fulmineo, le donne nude e prosperose, il geometrismo fallico, i suoi dialoghi con la vagina ante litteram, i tanti disegni erotici di stampo picassiano.
Opera di De Candia
Mastodontico tumulo di carne con un’anima fanciulla, che dipingeva a larghe pennellate come un Matisse salentino, creatura kafkiana, metà sogno e metà circo ambulante, replay impossibile di un mondo che non esiste più, che forse non è mai esistito, la tua non fu la morte lenta e inesorabile del trasgressore. No, non ci fu alcun eroismo. Tu avevi lasciato questa terra inospitale molto tempo prima, in punta di piedi. Quello che parlava agitando le mani come mannaie era solo un ectoplasma, un fantasma invendicato, un anima implacata e amara che cercava ancora un paradiso che non c’è , una pace che non esiste. Il tuo riposo del guerriero, del ribelle creatore, il riposo del settimo giorno, nell’appagamento dell’uomo e dell’artista incompiuto non c’è mai stato. Tu, Edoardo, sei fallito in tutto, perfino “artisticamente”, se è vero come è vero che nonostante celebrazioni, libri, simposi, film su di te, di amici ed estimatori, ancora nulla di concreto han fatto le Istituzioni, i Critici d’arte che contano, i Grandi Mercanti Nazionali e Internazionali.
Tutto ti hanno sottratto i raccoglitori di sterco, gli affaristi a buon mercato. Un poco alla volta ti hanno svuotato del tutto, completamente, finchè è rimasto solo il Matto, un uomo disabitato, una gigantesca crisalide, un immenso involucro, un buco nero, un deserto con gli ultimi fuochi, gli ultimi bagliori per stupefatte parole di cristallo e fulminei incontri. (“Non ho amici, io sono solo, sperduto, abbandonato”). Ma questa è forse la sorte dei veri profeti, la sorte dei veri poeti.
Ricordo l’ultima stretta di mano, l’ultima immagine della sua stanza-cella-catacomba, l’ultima beffa, con le marine a cinquemila lire e gli oli e le tempere sciolte nell’acqua dell’Adriatico, paesaggi ghignanti che si disgregavano il giorno dopo come nelle dissolvenze narrative di Borges. Splendido e dannato, teorizzatore di farisei, amico del manicomio, gran campo di grano bruciato, anima diseredata, anima da negro, drop out, ultimo della terra, amara radice, sempre perennemente in fuga dal microcosmo salentino, dalla “maledetta Lecce” da cui non potevi star troppo lontano… No, — diceva Antonio Massari — quello che mi stava davanti non era più Edoardo, che era alto come il più alto dei pini di San Cataldo, non era più Odoacre il maestoso, il nauseato, il puro, il bellissimo…
Edoardo De Candia
In fondo la bellezza è qualcosa di difforme e niente di più…Non più illuminazioni, né canti di Maldoror, non più Sartre e Juliette Greco, ma una sedia , un povero letto, una prigione putrida che puzza di piscio, di vernice e roba andata a male. E un corpaccione nudo, sgraziato, lento a muoversi, lento a comprendere, tornato analfabeta come un uomo delle caverne. Pitta non sa che cosa, non mi riconosce più, non sa più parlare, nemmeno cogli occhi..
Rivedo quella sua marina con le spume che camminano, quella marina sbarrata dagli alberi listati a lutto per il controluce, e gli alberi e i giunchi in primo piano che sono sbarre di prigione composte con tre pennellate. Sabbia mare e cielo. Il mare. L’unico vero suo grande amore, il mare che lui amava e da cui si sentiva riamato. Un paracadute, una pianta, un giglio e un bacio sulla bocca …e poi verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Vendeva marine a diecimila lire ai passanti di via Toma: “Vuei cu tte li ccatti?” Non ne ho comprati nessuno, dice un barista. Che peccato, chissà quanto valgono adesso, vero? Niente, non valgono nulla. Non avere rimorsi, barista-birraio leccese. Sono come lui. Campioni senza valore…Poco prima della morte era bello come un Cristo deposto .Non dipingo più, diceva, non ho testa.
Era immenso come un campo di grano dentro un piccolo letto stretto, una sedia e un comodino un armadietto coi ritagli di carta, la finestra aperta, l’aria agonizzante come in un orinatoio pubblico; al di là della porta a vetri un cane latrava, lui si era risvegliato, madido di sudore. Gli asciugai il viso col fazzoletto. Se lo lasciò addosso, come un sudario. Erano le prove mortuarie. “Lo rivedo in fondo al tunnel di tigli camminare come sul fuoco”. Era un creativo, ma sai a questa latitudine nostra, a questa latitudine del tacco, la fantasia, la creatività non basta, ci vuole di più, ci vuole carattere, ci vogliono le palle e lui, pur essendo un gigante,le palle non ce l’aveva proprio. Anzi. Era di una sensibilità femminea, come spesso capita alle nature creative.
Molti anni dopo questo incontro con Nocera, un altro amico comune, un poliedrico, che ha diversi registri, diverse scansioni, diverse tonalità, diversi gradi di sensibilità, e una lampada sempre accesa con cui cerca “l’uomo”, parlo di Elio “Diogene” Scarciglia, poeta dell’immagine, mi fa avere un suo libro con annesso documentario in dvd dal titolo emblematico, “Sembra quasi che il sole tramonti”, Terra d’Ulivi, 2007 . Ed è per me come un volo di Icaro. Vi ricordate quel famoso quadro di Matisse, quella figura appiattita e nera nel cielo azzurro durante la sua caduta libera tra le stelle? Il figlio di Dedalo, sciolte le sue ali di cera al sole, continua a precipitare nella notte cosmica simile alle notti insonni di Edoardo, in fuga perenne dalla realtà, dai suoi mali e dalle sue angosce. “Me ne fotto della vita, con la morte ho un rapporto, con la morte…Me ne vado in cielo, me ne vado in mezzo agli angeli, alle sante, alle madonne”. Elio, ha realizzato un’opera di scavo, di grande sensibilità, in cui arte e vita vanno insieme fino alle estreme drammatiche conseguenze.
Opera di De Candia
“Bisogna dire – scrive Carpentieri – che il documentario affronta la figura di De Candia dal suo interno, in una sorta di dimensione — e forse proprio per questa lenta per ritmo — che lo mette a nudo e lo rivela in tutta la sua complessità emotiva …seguendolo in un percorso temporale a cui danno immagine il giovane Emanuele Scarciglia (molto somigliante nel ruolo di Edoardo) e voce tanti volti noti della cultura leccese, alcuni dei quali amici storici dell’Artista”. Elio ha voluto spazzar via ogni residuo di retorica sul clichè tardoromantico dell’artista maledetto, ha bruciato sull’altare della verità e dell’onestà intellettuale ogni falso sentimentalismo, ha fatto un falò d’ogni pregiudizio, ma anche di ogni dietrologia. Si è sforzato di mettere a nudo, e a fuoco, il personaggio, nella sua complessità, nelle sue mille e una sfaccettature, personaggio che lui non aveva conosciuto, in quanto si trovava lontano da Lecce e dal Salento. Ed è riuscito a mio avviso a restituirci un Edoardo vivo, con la sola forza dell’immagine e dell’evocazione
Nessuna immagine patinata o convenzionale, nessun volo pindarico, nessuna forzatura, ha fatto parlare e vivere il pittore attraverso i fatti, le sue parole e le testimonianze di tutti quelli che l’hanno conosciuto. Poi ha steso il tutto su un grande pannello, come un grande unico quadro, e, per velature, ne ha delineato i contorni, sfumato le immagini in un narrato essenziale, con musiche originali di Andrea Senatore. Poi ha raccolto tutte le opere che poteva, tempere e disegni, le ha fotografate da par suo, e ne fatto un libro, un mazzo di fiori straordinario dai colori incredibili, che stanno lì a testimoniare il talento mostruoso di questo artista originalissimo, unico, con una energia, “una forza extraumana che imprime nel suo segno eroico forte di secoli, di millenni”, come disse Raffaele De Grada.
Scarciglia non ha toccato una virgola del poema tragico che è stata la vita di Edoardo, eppure nulla è più suo di questa ostensione che il pittore leccese fa di sé stesso, vera e propria sindone di carne e sangue, ostia consacrata all’arte con la sua faccia da strega spagliata, la bocca sdentata, le bave e li dderrutti.Lo fa rivivere percorrendo traiettorie rischiose, insidiose, “in un flusso di ricordi, emozioni, allucinazioni…un ritratto ispirato e poetico…un omaggio commosso ad un artista che attende ancora il riscatto”.
Opera di De Candia
Sì, questo gigantesco danzatore di nuvole si è spezzato mille volte prima ancora di esibirsi al pubblico-, e parliamo di palcoscenici importanti, Milano, Roma, Firenze, Parigi, Londra (“La moglie inglese di De Gasperi aveva spedito i miei disegni ad un’accademia a Londra, così mi hanno invitato”), — con la sua grazia suprema, quella grazia e leggerezza che ritroviamo nei suoi dipinti, nei suoi disegni che si fanno sempre più essenziali, infantili, assoluti. Basta vederlo all’inizio del film quando fa il Tarzan nella jungla di un giardino leccese, inseguirlo nelle marine leccesi, alle Cesine, dove era stato “con una marsigliese bionda, alta robusta…e poi con una sedicenne di Francavilla che sembrava un ‘amazzone”…e poi a Torre Venere, a Torre dell’Orso, a Sant’Andrea, alle Pajare, e in tutte le marine in cui faceva il bagno nudo (“perché mi sento libero e fresco, naturale, a contatto diretto col sole e col mare. Le pezze me dannu fastidio”), inseguendo il vento, i gabbiani e i sogni vesperali, urne d’azzurro, scintillazioni di linee, increspature, fratture tra finzione e realtà, linguaggio e idealità, tra volere e potere, tra aspirazione e fine. Il mare diventa tutto per lui, non può farne a meno, tutti i giorni, a piedi, estate o inverno, va al mare, mangia coi topi, dorme nei boschi, tra i pini marittimi, gli eucalipti, il rosmarino e il mirto, o “inthra li pagghiari “, come scrive Antonio Massari nel suo più volte citato bel libro. Il mare è finestra e specchio dell’anima, silenzio e lungo vuoto, passato e futuro, angoscia e felicità.
Non può farne più a meno, come dell’arte a cui è stato chiamato ancor prima di nascere.”L’arte può tutto, l’arte è vita, — dice Edoardo- , e tutto si può permettere un artista, ogni cosa, la più assurda, la più fottuta, tutto…. Io so’ Picasso e Michelangelo, Klee, Mirò e Braque…io so’ il vento, io so’ il mistero…Gli altri vivono a spese degli artisti…Gli artisti creano e loro?…Tutti parassiti, tutti magnaccia”. E ride con l’ebbrezza del cuore, il canto e il grido che si fanno colore vivo, passione, il prodigio che si fa linea, paesaggio, orizzonte marino, corpo di donna nuda, e poi giù, giù, senza più difese, senza sovrastrutture, senza compromessi, senza spazi in cui trovar riparo, senza nessuna possibilità di sfuggire al proprio destino di “diverso”, di angelo martire dell’arte, eccolo affondare nelle tenebre, nella fredda notte , e un brivido lungo di fronte alle palude degli uomini dabbene, a quei mostri spaventosi di indifferenza che siamo tutti noi quando attraversiamo le strade di Lecce, o di qualsiasi altra città del mondo, senza accorgerci di calpestare anime fragilissime,meravigliose e nude come la sua.
Edoardo si è oscurato man mano, nei bordelli, nelle carceri, nelle osterie a bere “vino e malinconie”, tradito e abbandonato dagli amici, ma anche dai tramonti, dai notturni del proprio destino, che erano dentro di lui, inadatto a vivere in questo mondo dove i pastori fanno saltare, a pietre, i denti ai vari don Chisciotte di turno, dove ogni giorno viene impiccato o bastonato un poeta, come capita a lui, a Bari, dove viene massacrano di botte, mezza faccia ridotta a “marangiana” perché si permette di “disfiorare appena una ragazza
(“Pure qualcuno ti disfiorerà, bocca di sorgiva”). Torna a casa. Non può più dormire con la finestra chiusa, e la povera madre, di notte, d’inverno, la chiude. Allora lui scardina infisso e bussola e scaraventa tutto in giardino, sotto i due limoni e il mandarino dormienti. Il padre lo fa rinchiudere in manicomio, oggi “Ex Opis”, Ospedale Psichiatrico Interprovinciale Salentino. E qui gli cingono le tempie con la corona non d’alloro, ma elettrica.
Opera di De Candia
Una lunga serie di elettrochock e di docce gelate, l’ultimo affronto alla sua dignità. E l’ anima si fa man mano estranea a se stessa, l’anima diventa prigioniera, non sa più sfuggire alla trivialità del “progresso” in cui si traveste il tempo finale, non sa più ritrovare il profumo dei fiori e quello del mare cobalto blu, in mezzo alla immondizia e al catrame, all’odore del sangue e dell’orina degli ospedali. Che cosa orrenda, che lamento e che grido di dolore senza fine, che bandiera di carne sanguinante, povero Edoardo, tu, anima libera e gioiosa tra i venti e le nuvole, i boschi e le stelle, rinchiuso come animale in gabbia! Quel manicomio di Lecce è il nostro vivo rimorso, le macerie di una memoria tutta da ricostruire e da ricomporre…. quella tua esistenza sospesa tra il mistero e l’irrealtà.
(Nell’ebook sono presenti ulteriori opere di Edoardo De Candia)