Eduardas Miezelaitis
Eduardas Mieželaitis
Dal 1940, anno in cui fu invasa dall’Armata Rossa e annessa all’Unione Sovietica, la Lituania per 50 anni è rimasta separata dal mondo. Moltissimi scrittori furono costretti a emigrare. Ma le idee della libertà e dell’indipendenza, anche se manifestate attraverso allusioni e metafore, sono state sempre presenti nella coscienza degli scrittori di questo paese. Nella produzione letteraria lituana pre-indipendenza (riconquistata nel 1990) prevaleva l’impostazione ideologica. Storie di guerra, dopoguerra e tematiche relative alla realtà industriale. Tra i primi che contribuirono con i loro scritti a liberarsi dal realismo socialista ci furono diversi poeti, tra i quali Eduardas Mieželaitis.
Nacque a Kareiviškis il 3 ottobre 1919 e morì a Vilno il 6 giugno 1997. Raggiunse la notorietà a metà degli anni ’40, diventando uno degli autori più popolari nella Lituania Sovietica del dopoguerra. Poeta di grande talento, svolse un ruolo rilevante nella rinascita della qualità e della struttura lirica della poesia lituana. Amalgamando gli elementi folk tradizionali e le tecniche moderne associate al simbolismo e all’espressionismo letterario, Mieželaitis aspirava a creare una sintesi delle forme poetiche: versi canonici e versi sciolti, prosa e dialogo, musicalità e dissonanza. Egli intendeva la poesia come un mezzo per esplorare il significato e lo scopo dell’arte, e come relazione tra l’artista e la realtà. E’ considerato il principale innovatore nello sviluppo della letteratura lituana.
Esponendo il suo credo in una delle sue biografie, Mieželaitis dice: “Dimmi come consideri l’uomo e ti dirò chi sei. In altre parole – quali sono i tuoi principi umani e quale grado di umanesimo hai raggiunto. Perché l’uomo è un continente inesplorato verso cui punta costantemente l’ago della bussola umanistica.” L’autore analizzando l’uomo rivolge particolare attenzione alle sue mani: se le mani creano, o distruggono. “Le mani – dice Mieželaitis – rivelano l’uomo, dicono tutto di lui. Quanto egli ha creato e quanto ha distrutto.”
Molto belle sono le sue poesie dedicate ad Adam Mickiewicz e a Mikolajus Konstantinas Čiurlionis (1875-1911) – il Pittore della Musica, molto legato alla Polonia e soprattutto a Varsavia. Di lui Romain Rolland (1866-1944) ha scritto: “Mi è difficile esprimere a parole l’eccitazione che questo straordinario artista ha suscitato in me, come uno che non solo ha arricchito l’arte della pittura, ma che ha anche ampliato il nostro orizzonte nella sfera della polifonia. E’ un continente spirituale del tutto nuovo e Čiurlionis è il suo primo Cristoforo Colombo.” Da alcuni critici egli è considerato un precursore di Kandinskij.
Molti versi di Mieželaitis sono nati dai suoi numerosi viaggi. Dalle impressioni riportate nei suoi viaggi in Italia, scaturiscono le sue personali interpretazioni della pittura e della scultura italiane (Giotto, Beato Angelico, Leonardo, Michelangelo). Il tema dell’eterno circolo della natura (unificazione e differenziazione) nonché nella vita spitituale dell’uomo sotto ogni latitudine, è il costante e inseparabile motivo che svolge un ruolo fondamentale nelle poesie scritte da Mieželaitis nella seconda metà della sua vita.
Tra le sue raccolte poetiche ricordiamo in particolare: Tėviskes vejas (Vento del luogo natale, 1946), Svetimi akmenys (Pietre straniere, 1957), Žmogùs (Uomo, 1962), Lyriniai etiudai (Studi lirici, 1964), Antakalnio barokas (Il barocco di Antakalnis, 1971), Postskriptumai (Post scripta, 1986).
Presento qui alcune poesie di Eduardas Mieželaitis. Questa volta, non conoscendo il lituano e benché io sia restio a tradurre da una lingua intermedia, mi sono servito della versione inglese non rimata, preferendola a quella polacca, nella quale i poeti-traduttori hanno conservato spesso le rime esistenti, costringedoli in tal modo a creare soluzioni alternative rispetto alla letteralità dei testi originali.
L’oceano
Oceano!..
Vecchio come il nostro mondo è l’oceano,
anche i poemi che gli hanno dedicato sono vecchi,
eppure è sempre in movimento,
in perpetuo movimento,
e io mi sento come un’isola fusa nel suo stampo.
Lo ammetto, ci ripetiamo, siamo banali,
forse dopo tutto siamo infantili,
ma perché non paragonare la vita umana al mare?
Se le nazioni e la gente sono paragonate a isole,
perché allora non essere avvicinate al mare?
I poeti ci hanno giurato: “La vita è un oceano senza fine”,
ma bagnata nelle pozzanghere delle proprie lacrime.
Perciò noi sveliamo l’ingannevole idea
di navigare soli attraverso l’oceano
dimenticando le nostre paure…
Che incantevole elemento!
Osservando il suo moto che lascia senza fiato,
perfino affrontando i suoi venti vuoi restare,
perché il sapore del suo sale ti affascina,
e l’inno delle sue onde continui a sentire
come in una conchiglia…
Rigirati, oceano!
Tu ancora non hai provato tale libertà e sollievo…
Anche se alcune navi giacciono immobili nei tuoi fondali,
più nuovi vascelli – tuo orgoglio – accolgono la brezza…
Rigirati, o marosi di popolo!
Rigirati, umanità oceano!
Cosa io sono non lo so:
una piccola barca o un’isola, cioè qualcosa di solido,
non importa, o vita diletta, non risparmiare il mio cuore,
percuotilo come roccia con le tue onde senza sosta…
Io ammiro l’elevata umanità oceano,
io mi rallegro dei suoi flutti che lambiscono i continenti.
Che qualche snob tratti pure con scherno questa nozione,
ma per me la vita – l’umanità – e l’agitato oceano
è un’immagine che non invecchia mai,
essa offusca molte altre
tutte apparentemente nuove e audaci…
Rigirati, o mare pieno di vita!
Rigirati, o marosi di popolo!
Guarda, con mani di poetica devozione
noi terremo la madre Terra in movimento,
in perenne movimento…
Le cascate del Niagara, ovvero a passeggio con Walt Whitman
1.
Stretta, come le parole nei sonetti, nella sua cornice di rive,
obbedendo ai canoni, scorre l’epica acqua del fiume,
come gli eventi in perenni poemi, come l’albero
della canoa che portava Hiawatha,
e come il fumo grigio del tabacco contorto dal vento,
che si levava nella quiete del meriggio dal suo calumet;
lenta come un tempo la Santa Maria di Colombo
veleggiava adagio, nella brezza medioevale.
Ed ecco, a un tratto, l’orlo del precipizio…Come un esercito
spinto in flussi umani a una guerra fratricida,
precipita a piombo nell’abisso e con fragore
rombano le trombe marziali.
2.
Ma ora al diavolo l’armonia,
al diavolo i canoni –
nessuna penna potrebbe frenare il ritmo dell’acqua.
Al diavolo i versi,
qui non servono a nessuno,
perché nel chiasso e nel tumulto del torrente
non li sentirebbe neanche il più sensibile orecchio.
Qui i versi devono essere assordanti come il tuono
o, almeno, come salve di cannoni,
perché qui legioni di acqua sfrenata sono in guerra.
Al diavolo anche la logica,
poiché qui prevale l’illogico
e nulla è rimasto delle regole geometriche.
Qui la forza prende il sopravvento.
La brutalità esce furiosa in superficie,
calpestando i deboli coi suoi piedi.
Qui domina una selvaggia massa irrompente,
qui di acqua infuria una guerra civile.
Qui le razze acquatiche
nera e bianca, rossa e gialla si mescolano,
e la democrazia della Natura trionfa.
Acqua e parole
sono bianchi e neri, rossi e gialli democratici
che infrangono l’intera struttura dei vecchi canoni,
infrangono le eterne e armoniose dittature,
creando un caos monumentale.
Qui non udrai mai il flauto del pastore.
Qui i tamburi rombano e le trombe di ottone erompono.
Ma sopra tutto questo inferno pende nell’aria
la colorita armonia del cielo –
l’arcobaleno
che incorona l’argentea testa di Walt Whitman,
il re del caos, il filosofo e il satiro,
mentre dalla sua nivea barba come briciole di pane
si versano sonore parole:
“And mind a word of the modern –
the word En Masse.”
Io dico a Walt Whitman:
una sola parola, come individuo, non ha senso,
perché non può mai vincere in nessuna battaglia.
Oggi vincitrici saranno le parole en masse –
eserciti di parole, brigate e legioni di parole,
movimenti di parole, rivoluzioni e rivolte,
e nascerà una nuova società di parole, parole – democratici,
un nuovo sistema democraticamente organizzato.
Questa cascata di parole
non può più essere stretta
nei confini dei giambi, dei dattili e così via,
perché ci sono troppe parole – intere masse di parole,
e per controllarle altre leggi e sistemi sono richiesti.
I loro versi originano dalle piene del fiume,
dalle raffiche di vento, dal sordo frastuono dei torni
e dallo schianto dei tuoni.
Il loro ritmo è l’asimmetria,
la pulsazione del disordine
che dominano in Natura.
Ma da questo caos emergerà
una magnifica caotica armonia.
E le parole prenderanno il colore da tutte le razze umane,
dalla terra, dall’acqua del mare, dall’erba e dall’acciaio.
E sopra la caotica massa d’acqua del Niagara
splenderà la bianca arruffata testa del vecchio Walt Whitman,
il grande Pan della poesia.
3.
Agghindo i miei versi come una bambola;
le faccio le trecce di rime,
e la lascio andare graziosa e linda,
bene acconciata come la testolina di mia figlia,
in perfetto ordine – una vera bambola.
Ma a volte come un giovane puledro essa scalpita,
all’improvviso prende un’altra strada,
e allora la poesia si scatena,
tanto che neanche Aleksandr Blok
avrebbe potuto tenerla a freno.
Ma ha senso comprimerla in rigidi canoni,
nel loro corto letto di Procuste,
se le metafore si mostrano e i versi ignorano la scansione,
se l’immagine, sguainata la spada, vuole sfidare il canone
e lottare finché uno dei due non soccomba?
Vale la pena restringere l’amplitudine del ritmo?
Dobbiamo sempre seguire la regola comune
e tessere come gli altri bardi – Dio onnipotente! –
continuare a tessere, spaventati dalle novità,
attorno all’asse giambo-trocaico?
Ora ditemi: i fiumi frequentano forse il giambo?
E la brezza si serve dei giambi?
Ditemi: ogni cosa che attraversa il cosmo
sembra forse anche di poco un nostro giambo terrestre
o un nostro trocheo? – ditemi, vi prego!
Allora perché dobbiamo ridurre la scala di un poema?
Lasciamo alla nostra poesia completa libertà.
Agghindo a volte la mia poesia, se necessario,
la pettino, perché sia in ordine, prima di mostrarla!
Ma in realtà la poesia-bambola non fa per me!
4.
Sono tornato alle mie rive, voi direte…
Sì, è vero!
I vortici, la cascata
formano quest’epoca.
Ma tornare dalla cascata
non è come tornare
alla massima velocità della Santa Maria,
o alla canoa di Hiawatha,
o al fumo contorto del suo calumet.
Qui il ritorno
è quello di un cavallo uscito dalla battaglia,
che tende nervosamente tutti i muscoli.
Nel nostro caso, il ritorno è accompagnato
dai ricordi del vortice della cascata.
Un fiume che precipita da un dirupo
scorre più lento, ma non ritorna.
E così noi abbiamo due canuti poli
sulle opposte rive del fiume:
il cieco Omero dai capelli bianchi
e Walt Whitman dai capelli bianchi.
Uno con le sue foglie di lauro,
l’altro con le sue foglie d’erba –
entrambi hanno verdi corone,
e attraverso il Niagara
si tendono la mano.
L’Elmetto e il Crespigno
Accanto a un tronco marcito
Bagnato dall’acqua di una fonte
Un elmetto arrugginisce, afflitto,
E su di esso, temerario,
Come un audace alpinista
Si arrampica un vermetto. Vicino
Un uccellino esamina la spiaggia
Dove pensa di costruire il nido.
Le ultime schegge di ghiaccio
Si sciolgono e si mutano in rivoli.
Ma quale fiore nell’erba
Al vecchio elmetto si stringe?
Da sotto il suo cerchio di acciaio
Lo guarda un fragile crespigno.
Sfioragli il capo con la mano –
E’ vivo – imperituro…
Iperbole
Cos’è il cielo?
Cosa sono le stelle? Non sono semplici occhi blu?
Cos’è la luna? Non è un sopracciglio a forma di arco?
Non sono i tuoi tratti che nella mia poesia nascono
Disegnati nello spazio, e lasciati nei cieli a splendere?
Io disegno nello spazio
Il tuo viso effimero
Dalle stelle, dall’aria – con le tinte del tramonto,
Coi trilli dell’usignolo – una parodia
Di un poeta bambino che piange tristemente.
Disegno
Il tuo viso effimero dal nulla,
Dallo spazio, dal tempo, dai fulgidi tragitti degli uccelli,
Dai suoni, dal lampo, dalla pioggia, dal vento, dalla neve
E dai più astratti punti nel labirinto delle galassie.
Io posso sentire
La tua liscia pelle dipinta coi colori dell’aria,
Il mio occhio è attratto dal blu del tuo sguardo,
Il mio quadro ha il tuo profumo – il profumo
Del lillà che danza al chiaro di luna.
Ho appeso il ritratto
Qui, nel mio solaio,
E lo imploro di restare, come sogno che svanisce.
No, non è poeta chi non deruba i cieli,
Non è pittore chi non aggiunge le stelle ai propri colori.
Cos’è il cielo
Se le stelle sono i tuoi occhi e la luna – il tuo sopracciglio,
Il tramonto – le tue labbra che fluttuano come visione.
Il tuo immenso, immenso effimero ritratto
Disegnato da niente nello spazio
E’ il mio cielo!
L’uomo
Noi con due piedi sul globo della Terra.
Noi con due mani tese alla sfera del Sole.
Così tra il globo della Terra
e la sfera del Sole
io
sto…
Tonda è la mia testa – come il globo della Terra –
nel cui centro – come strati di carbone e metalli –
si trova il mio cervello che non vale di meno.
Io lo scavo
e ricavo
dall’acciaio
ogni genere di mezzi giganteschi:
treni
che collegano paesi lontani
tra loro,
navi che solcano gli oceani con ogni tempo,
aerei
che superano l’uccello in volo,
missili
veloci quasi come la luce
e rapidi
come il volo del mio pensiero…
Tonda è la mia testa – come la sfera del Sole –
dal cui centro nelle quattro direzioni
stupendi raggi si riversano:
essi alimentano la vita sulla Terra,
vi incoraggiano la nascita perpetua…
Cos’è la Terra?
Cosa vale senza di me?
…Un tempo una gigantesca e misera palla senza vita
vagava nelle sconfinate distese dello spazio…
La luna come specchio di notte da lontano
rifletteva la sua faccia brutta e butterata…
In miseria allora mi ha creato
e ha foggiato la mia testa come il Sole e la Terra…
La piccola palla – cioè la mia testa – è maturata in fretta,
ha superato il grande globo della Terra
e ora serve come suo asse permanente…
Quando è successo di ubbidire alle mie mani
Io ho rivelato la sua sorprendente bellezza…
E’ la Terra che ha creato me quindi
ma sono io
che l’ha rimodellata e l’ha resa
più nuova, più giovane e più splendida
che mai…
Coi miei piedi saldamente posati sulla Terra
e le mie braccia sempre tese verso il Sole,
io sto
come un ponte
che unisce la Terra
e il Sole
lungo il quale
verso la Terra
il Sole scende,
lungo il quale
verso il Sole
la Terra sale…
Tutte le splendide creazioni
io le ho foggiate dalla madre Terra
con le mie mani ingegnose,
non smettono mai di girarmi intorno
come una giostra variopinta…
…Le guardo girarmi intorno:
città con ponti e piazze,
case con ascensori e scale.
autovetture come insetti sulle ruote,
strutture di cemento e acciaio.
Vedo girare intorno alla mia testa veloci aeroplani,
e intorno ai miei piedi lunghi treni,
transatlantici che solcano acri
di mare e di oceano,
trattori e torni
che si muovono ruggendo,
io vedo lasciare le mie mani
come colombi in volo
molti satelliti e astronavi…
Di bell’aspetto, forte, di spalle larghe –
come un ponte che unisce la Terra
e il Sole –
io sto
al centro
del pianeta
irradiando sorrisi di luce solare
in tutte e quattro le direzioni.
Questo sono io –
l’uomo.
(C) by Paolo Statuti