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Il primo capitolo della pentalogia dedicata ai Whispering Corridors, datato 1998, fu il prodotto di un periodo di grandi cambiamenti in Corea del Sud, cambiamenti che iniziarono solo pochi anni prima con l’elezione del presidente Kim Young-sam, a capo del primo governo civile del paese dai tempi del colpo di stato militare del 1961.
Nell’anno in cui Whispering Corridors uscì nelle sale, la Corea del Sud, sorprendendo il mondo intero, riuscì a mantenere il suo impegno a democratizzare i processi politici, eleggendo, ancora una volta democraticamente, Kim Dae-jung, elezione che rappresentò il primo trasferimento del governo tra partiti con mezzi pacifici. Kim Dae-jung risollevò il Paese dalla crisi finanziaria e avviò una politica di riconciliazione con la Corea del Nord, che gli valse nel 2000 l’assegnazione del premio Nobel per la pace, per il suo lavoro a favore della democrazia e dei diritti umani nella Corea del Sud e in generale in Asia.
L’industria cinematografia coreana, inutile dirlo, ne ebbe un gran beneficio e film come Whispering Corridors, solo pochi anni prima impensabili, ebbero un successo di pubblico strepitoso (nell’anno in cui uscì divenne il settimo film coreano di sempre per numero di spettatori), e riuscirono da una parte a divertire ma, di contro, anche a portare un forte segnale di denuncia sociale. Fu proprio in questo scenario che il regista Park Ki-Hyung, all’epoca appena trentenne, decise di utilizzare la macchina da presa per portare all’attenzione del mondo la paradossale esistenza degli studenti coreani, fatta di pressione sociale innanzitutto, ma anche di una rigorosa disciplina che, tutt’altro che raramente, finisce per sfociare nell’abuso fisico perpetrato degli insegnanti nei confronti degli studenti.
Ad un impreparato osservatore occidentale, la visione di Whispering Corridors stupisce innanzitutto per ciò che sembra essere una drastica semplificazione, ovvero il metodo ideale per sopperire ad una mancanza di budget: tutto è girato, come accennavo all’inizio, tra le aule (e ovviamente tra i corridoi) di una scuola. Una situazione che, se vogliamo, altro non è che l’altra faccia della democrazia o, meglio, è l’ennesimo conto da saldare all’ormai scomparso regime militare. Dopo decenni di isolamento la nazione si era ritrovata a doversi confrontare con il resto del mondo e, una volta tirate le somme, sta ora cercando faticosamente di recuperare il passo affidandosi ad un sistema severo e soffocante in grado di garantire, qualunque sia il prezzo da pagare, un rapido sviluppo economico. Costi quel che costi.
Un sistema durissimo ma dannatamente efficace visto che, a conti fatti, senza l'ossessione maniacale per la competizione, sviluppata già in età prescolastica, la Corea del Sud non sarebbe mai diventata la potenza economica che è oggi. Dalla caduta del regime militare il PIL nazionale è aumentato del 40.000%, la Corea del Sud è diventata la quattordicesima potenza economica mondiale, il reddito pro-capite è passato dai 79 dollari ai circa 24.000 attuali e la disoccupazione è invidiabilmente solo al 3,9%. La Corea del Sud rappresenta inoltre uno dei paesi più avanzati dal punto di vista tecnologico, grazie anche agli investimenti di grandi aziende come Samsung, LG Electronics, Kia Motors e Hyundai. Ma a quale prezzo?
Nel 2010, secondo i dati del Ministero dell'istruzione, sono stati 146 gli studenti che si sono tolti la vita nella Corea del sud (il tasso di suicidi più alto dell'OCSE) mentre, in generale, si registra un drammatico primato di circa 40 suicidi all’anno ogni centomila abitanti (quattro volte di più che in Italia). Il sistema di educazione in sé non è tuttavia molto diverso da nostro: esso consiste in 6 anni di elementari, 3 anni di medie, 3 anni di superiori, quindi 4 anni di università e dottorati di vario genere a seguire. Ciò che è diametralmente opposto è il modo ferocemente competitivo con cui vengono affrontati gli anni di studio. L’obiettivo è quello di poter accedere ad uno dei pochi atenei prestigiosi del paese, gli unici attraverso i quali le carriere lavorative dei giovani coreani possono spiccare il volo verso il successo. Solo una piccola percentuale tra i richiedenti riesce ad accedere ai test di ammissione e, tra questi, solo ad una piccolissima percentuale si spalancheranno infine le porte di tali atenei.
Per tutti gli altri non resta che la prospettiva di una vita nell’ombra, macchiata dall’umiliazione dell’aver frequentato un’università sbagliata. E così quattro milioni di studenti trascorre maniacalmente 14 ore al giorno sui libri, ininterrottamente dalle 8 di mattina alle 10 di sera, dilapidando intere fortune in lezioni integrative private. Spesso sono infatti le famiglie stesse che spingono sull’accelleratore della competizione, spingendo i figli al massacro, famiglie disposte al sacrificio estremo (quello dei figli) pur di far avverare il desiderio di vittoria. In questo scenario sono proprio gli insegnanti a ricavarne il maggior beneficio, sfruttando a proprio vantaggio la folle corsa all’istruzione dettata dal desiderio di eccellenza, e arricchendosi con attività di tutoring privato o addirittura online. In una corsa senza freni tutto diviene infine ammissibile e non stupiscono i numerosi casi di abusi che vedono protagonisti gli insegnanti nei confronti dei propri studenti.
Whispering Corridors è quindi soprattutto un impietoso ritratto del sistema educativo coreano. Insegnanti come quelli descritti dal regista Kim Young-sam, pur nel loro aspetto caricaturale, non sono molto diversi da quelli reali, ed è questo forse il vero aspetto horror di tutta la questione.
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