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- Scritto da Lorenzo Bianchi
- Categoria principale: Rubriche
- Categoria: Cinesaggistica
- Pubblicato: 14 Dicembre 2015
Perché nevica, nonna?
Una domanda semplice, posta da una bambina in una fredda notte d’inverno. E come vuole la tradizione del mito, è necessario raccontare una favola per dare una spiegazione soddisfacente ed esaustiva. Non è quindi un caso che la prima immagina sia il logo della 20th Century Fox in mezzo ad una copiosa nevicata, che da ghiaccio diventa una pioggia di biscotti, sulle meravigliose note di Danny Elfman (che con questa colonna sonora perfetta e indimenticabile raggiunge uno degli apici della sua carriera, contribuendo non poco alle emozioni che questo film regala), che introducono quello che, a tutti gli effetti, è il vero capolavoro del Tim Burton che fu, Edward mani di forbice.
«Se domandate ad un adulto cos’è una favola, dirà che è una storia per bambini. Ma se gliela fate leggere, se ne descrivete i personaggi, sarà orripilato dal suo contenuto e dall’immaginario che usa. Inoltre, la favola non è una storia, ma una rappresentazione mentale in cui gli adolescenti si proiettano per vivere qualcosa di diverso». (Tim Burton)
Tutto nasce da un immagine che il regista ha disegnato quando era adolescente, specchio della sua psicologia cupa e di un animo introverso che si sente stretto nella colorata e omologata Burbank – non distante dal paesino in colori pastello nel film – e che si riversa in questo personaggio vestito di nero, pallido, con i capelli arruffati e con delle forbici al posto delle mani, simbolo di impossibilità a comunicare, impedendo, di fatto, quello che, dopo la vista, è il primo contatto con il mondo. Nasce così Edward, che vede in Johnny Depp un perfetto alter ego, capace di regalare una delle interpretazioni più toccanti della sua carriera, se non addirittura la migliore, con uno sguardo perso, ingenuo, pulito, lontano dalla cittadina sporca dove viene gettato dalla dolce Peg. Lei, rappresentante Avon non certo brillante, decide di avventurarsi in quel misterioso maniero sulla collina che sovrasta la cittadina di periferia in cui vive, incontrando quello strano personaggio, decidendo di portarlo con sé, scatenando la curiosità delle casalinghe disperate (con tanto di “profetico” «dovrebbero fare un programma su di noi» pronunciato da una di loro) e poi dei loro mariti, gruppo di cittadini curiosi e ipocriti, che vedono in Edward una novità su cui lanciarsi come avvoltoi, salvo poi denigrarlo e relegarlo come un mostro nel finale.
«Noi non siamo pecore»
È l’ingenuo Edward a dichiararlo, dopo essere accusato di essere il demonio, anche se, purtroppo, è un discorso che può fare solo per se stesso: lui è la creatura diversa, speciale, ma che ben presto viene discriminato perché incapace di omologarsi, risultando quindi inadeguato ad una società troppo ottusa per poterlo accogliere davvero, finta come la neve che il signor Boggs, marito di Pegg, attacca al tetto pochi giorni prima di Natale. Una critica sociale feroce quella di Burton, che fa passare la superficialità della cittadina attraverso le case tutte uguali, con solo il colore a differenziarle, ma che, appena varcata la soglia, diventano locali asettici, deprimenti, totalmente vuoti e privi di creatività.
Edward porta la creatività, ma allo stesso tempo è goffo distruttore, con le sue mani di forbice in un mondo così fragile. Peg è ingenua ma dall’animo buono, unica figura positiva della favola assieme al poliziotto, e alla dolce Kim, anche se lei merita un discorso a parte.
Una cheerleader divenuta angelo salvifico.
Kim (Winona Ryder) ha tutte le caratteristiche che fanno di lei la classica e vuota cheerleader di città: biondina, bellissima, fidanzata con il macho di turno, ma che a conti fatti sembra non aver nulla più del suo corpo da mostrare. Sembra. Perché anche gli occhi di Kim, al pari di quelli di Edward, parlano, descrivendo un anima diversa e stretta nelle vesti che la comunità in cui vive le ha cucito addosso, ma è una personalità “in potenza”, che solo Edward riuscirà a far emergere in maniera totale. Ed ecco allora che sulle note di Ice Dance, il pezzo forte di Elfman, arriva la sequenza definitiva, tra i doni più preziosi che Burton abbia fatto al cinema: Kim è in casa che si occupa degli addobbi natalizi quando qualcosa richiama la sua attenzione, lentamente si avvicina alla finestra e scorge Edward, in giardino, su una scala, intento a scolpire un angelo in un blocco di ghiaccio, creando la neve. Inizia allora una danza, sia della ragazza che dalla macchina da presa, che accompagna Kim nel suo movimento risaltando sullo sfondo dapprima la scultura del tirannosauro nel cespuglio (l’anima terrena di Kim), soffermandosi poi sulla ragazza, vestita di un candido bianco, con alle spalle l’angelo ormai completato, in cui ora lei è completamente identificata. Dopo una sequenza di questo livello risulta difficile pensare ad altro, potrebbe racchiudersi qui l’intero film, che può essere pensato come la rivisitazione della Bella e la Bestia, mescolato a Frankenstein (dove l’inventore è uno splendido Vincent Price, mito di Burton), ma forse è solo Edward Scissorhands, una fiaba gotica e toccante con cui Burton ha scritto un capitolo indelebile nella storia del cinema, capace di commuovere e di far sognare ancora, 25 anni dopo.