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Effetto Althusser

Creato il 27 marzo 2015 da Albertocapece
Louis Althusser

Louis Althusser

Anna Lombroso per il Simplicissimus

” Ecco la scena del delitto proprio come l’ ho vissuta…. Sono in piedi, in vestaglia, ai piedi del mio letto nel mio appartamento dell’ ‘ Ecole normale’ ….  Davanti a me, Hélène … Inginocchiato vicino a lei le massaggio il collo. Mi è capitato spesso di massaggiarla in silenzio, la nuca, la schiena, e i reni… Ma questa volta, è la parte anteriore del suo collo che massaggio… Il volto di Hélène è immobile e sereno, i suoi occhi aperti fissano il soffitto. E all’ improvviso sono colto dal terrore…Mi sollevo e urlo: ho strangolato Hélène…”. Quando si seppe che Louis Althusser aveva ucciso l’amatissima moglie, si cercarono mille risposte ad un unico perché. Perché su un’intelligenza così luminosa fossero cadute quelle tenebre. Perché un uomo così dolce, in un mondo nel quale la mitezza è qualità civile,  fosse stato posseduto da un impulso parossistico così ferino. Perché un marxista in un tempo nel quale il marxismo era ancora riconosciuto come utopia possibile, avesse negato con un gesto  l’eventualità di contribuire a realizzarla, forse in una profetica commistione di tragedia privata e fallimento politico.

Eppure si sapeva che il filosofo già dalla fine della guerra aveva attraversato fasi di elettrizzante dinamismo creativo e fasi di depressioni, che  gli psichiatri gli avevano applicato più volte l’ elettrochoc, del quale filosofo fa un’ accurato racconto nella sua autobiografia, una dolorosa confessione dell’alternanza   dei grigi momenti di follia e di quelli luminosi della riflessione filosofica, che fa di lui  l’ incarnazione della figura quasi mitica del pensatore folle, che, dopo Nietzsche e Wittgenstein, ci costringe ad ammettere la fragilità e l’ incertezza del confine tra ragione e pazzia.

Il fatto è, ed  è banale ammetterlo, che è difficile accettare che una mente brillante, nella quale sembra albergare generosamente la ragione al servizio della conoscenza, degli altri, del loro riscatto, possa essere violata sorprendentemente dai mostri: delirio, insensatezza, alienazione, malattia. il fatto è, ed è banale dirlo, che non sopportiamo che si rivelino in chi ci sta vicino, che ci impaurisce che si manifestino in chi conosciamo, che ci sconvolge che si annuncino in chi ammiriamo, che ci disorienta che diventino palesi in coloro cui affidiamo la nostra vita. Ma, ed è ancora più banale riconoscerlo, ci fa paura soprattutto il rischio sepolto e rimosso che stiano dormendo, nascosti e silenziosi dentro di noi. E che d’improvviso “l’io non sia padrone in casa propria“, e con lui la cognizione di sé. E che si spengano la ragione e la sua irriducibile volontà di erigersi al di sopra di tutto, la iattanza di controllare tutto, istinti, violenza, odio, pudore, bestialità.

È per via di  questa paura, quella dell’altro da noi che forse dorme in noi,  che da sempre il folle viene collocato ai margini della comunità, fino all’esclusione, prigioniero prima di tutto di se stesso,  “in mezzo alla più libera, alla più aperta delle strade e non si conosce il paese al quale approderà, come, quando mette piede a terra, non si sa da quale paese venga. Egli non ha né verità né patria se non in questa distesa infeconda fra due terre che non possono appartenergli”, come scrive Foucault, che pure lo dipinge come detentore di un sapere oscuro e impenetrabile, in possesso di realtà trascendenti intrise di segreti misteriosi la cui conoscenza è preclusa all’uomo comune.

Così a un tempo viene indicato come folle chi è diverso, anticonformista o anarchico, ribelle o visionario, mistico o profetico. Ma anche il criminale, la belva  sadica, il tiranno implacabile,   il despota sanguinario, che vogliamo alieno dalla banalità del male e dalle convenzioni del bene per rassicurarci della sua estraneità, per assolverci dalla responsabilità di averlo lasciato fare, di aver sottovalutato la sua potenza, di aver bevuto i suoi veleni e di aver ceduto alle sue stregonerie malvagie, di aver ubbidito ai suoi comandi. Ci consola convincerci dell’anomalia, persuaderci dell’incidente che rompe l’armonia programmata delle esistenze normali, credere che chi delira, chi vaneggia sia alienato ed alieno, stonato, come  “un’orchestra senza direttore” e non “un direttore che cerca di far funzionare la sua- per noi cacofonica- orchestra secondo nuovi, improvvisati programmi”.

È per questo che per stare indisturbati nella tranquillizzante normalità del pensiero comune è più accettabile pensare che sono pazzi fanatici i tagliagole dell’Isis e non chi muove “guerre umanitarie” con l’impiego di armi di distruzione di massa, come epilogo naturale e ineluttabile della politica e della diplomazia. Che siano macellai folli i dittatori degli estremi del mondo, il contrario della ragionevolezza amministrativa del grigio ministro occidentale che ordina di bombardare il Kosovo.

È che ha ragione quel proverbio delle mie parti “manicomio xe scrito per  fora”. E forse se cominciassimo a guardare in fondo alle nostre diversità, alle nostre paure, alle nostre ossessioni, forse  isoleremmo  l’abnorme, il disumano, il bestiale, il barbaro. E probabilmente  riconosceremmo meglio il malessere degli altri, perché non diventi dolore  così insopportabile da diventare violenza e morte.

 


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