EFFETTO DOMINO - Rubrica di approfondimento tematico
Foto di Marco Landi
Intervista di Chiara Rea
Abbiamo incontrato Deborah Willis, canadese, classe 1982, autrice della raccolta di racconti Svanire, pubblicata da Del Vecchio Editore. Secondo Alice Munro «la gamma emotiva e la profondità di queste storie, la chiarezza e l’abilità compositiva sono stupefacenti»; secondo Paolo Cognetti si tratta della «migliore raccolta di racconti pubblicata in Italia nel 2012».
Per prima cosa ti vorrei chiedere come e quando hai cominciato a scrivere. La scrittura ti ha accompagnato tutta la vita o è arrivata più in là?
Credo che sia stata sempre con me: già da piccola sognavo di fare la scrittrice e scrivevo delle poesie terribili. Anche mio padre voleva fare lo scrittore quando era giovane – ma a quel tempo non funzionò – quindi forse è una cosa che ho ereditato da lui. A volte mi diceva: “Forse sarai tu la scrittrice in famiglia”. Quindi è come se stessi continuando qualcosa che lui aveva cominciato. Ora però sta scrivendo un romanzo: è una cosa fantastica! Mi manda un capitolo alla settimana (lui scrive molto velocemente, mentre io sono più lenta) e per ora mi sembra bravo.
Hai impiegato circa sei anni per scrivere i racconti di Svanire. In tutti questi anni hai ti sei dedicata solo ai racconti o hai anche provato a scrivere qualcosa di più lungo, un romanzo per esempio?
Avevo cominciato a scrivere un romanzo, una sorta di “young adult”, ma non avevo in mente qualcosa di preciso. Ho scritto quattro capitoli e poi mi sono fermata: avevo perso interesse, non credo che fosse quello che volevo fare veramente.
Deborah Willis
Quali sono secondo te le possibilità espressive che la forma racconto offre a uno scrittore?
Mi sembra che il racconto offra la possibilità di sperimentare più voci e vari tipi di struttura o di prospettiva: prima, seconda o terza persona, diversi punti di vista del narratore, diversi piani temporali, sono molte gli elementi con cui ci si può cimentare. Mentre ho l’impressione che spesso nel romanzo ci si tenda a consacrare ad un’unica voce, a una sola storia: non c’è la stessa libertà. Credo che il racconto sia un’ottima scuola per i giovani scrittori, ti dà la possibilità di imparare molte cose, ad esempio come trovare il ritmo giusto o come svolgere un intreccio, come trovare il momento giusto per dare determinate informazioni. Però sono due tipi di scrittura estremamente diversi: si impara molto scrivendo racconti, ma non si impara di certo a scrivere un romanzo.
Mentre scrivevi, quali erano i tuoi punti di riferimento letterari?
Soprattutto autori di racconti. A influenzarmi di più è stato senz’altro Čechov, ma anche Alice Munro: del resto in Canada quasi tutti gli scrittori sono influenzati da lei, ma io mi sento particolarmente vicina alla sua sensibilità di autrice. E poi Flannery O’Connor, Raymond Carver e Lorrie Moore. In questo periodo sono fissata con un autore inglese contemporaneo, Edward St. Aubyn: adoro il suo lavoro.
Leggendo Svanire, si ha la netta sensazione di potersi immedesimare in questi personaggi che vengono lasciati, abbandonati o che perdono qualcuno, di poterne sentire il dolore. Ma, via via che leggevo, mi sono anche sentita molto curiosa – e un po’ invidiosa – nei confronti di coloro che svanivano e mi sono chiesta se, mentre scrivevi, ti fosse capitato di immedesimarti nei personaggi che svanivano, se avessi mai desiderato essere al loro posto. Ti capita mai di voler scomparire?
Sì, mi è capitato, soprattutto mentre scrivevo ho sentito spesso il desiderio di sperimentare un sentimento di libertà così estrema. Ma se ci ripenso adesso, mi fa un po’ paura l’idea di essere totalmente tagliata fuori dalla mia vita, dai luoghi a cui appartengo e dalle persone a cui voglio bene. Ma è comunque una tentazione.
Credi che in un certo senso scrivere sia un modo di scomparire? Scompari in quello che scrivi, ti cancelli nelle tue parole.
Sì, credo che sia un modo per fuggire perché puoi entrare nei panni di qualcun altro, puoi quasi vivere le vite di altre persone, ti immagini per esempio come sarebbe essere un uomo o fare un altro lavoro o avere un’altra età. Che poi è la stessa cosa che capita ai lettori quando leggono, e penso che sia un importante lavoro di immaginazione da fare su se stessi.
In un’intervista hai detto che gli scrittori dovrebbero fidarsi dei lettori: non spiegare o mostrare troppo, non avere la funzione di una guida, ma piuttosto nascondere alcune cose. Ma avere una tale fiducia nel lettore non significa anche avere fiducia nell’essere umano? Quando osservi le persone, non ti sembra impossibile che capiscano te e quello che scrivi?
Io la vedo più dal mio punto di vista di lettrice: se l’autore mi spiega troppo, mi sento frustrata e quindi, da scrittrice, cerco di evitarlo. È un equilibrio molto difficile, perché allo stesso tempo non vorrei risultare confusa o poco chiara per il lettore, ma non voglio nemmeno essere ripetitiva o noiosa. Ultimamente stavo leggendo un romanzo che si svolge durante la Seconda Guerra Mondiale, uno dei personaggi incontra una ragazza che è molto impaurita, lui capisce che ha paura di essere violentata e che deve essere stata violentata già prima da un soldato come lui: lo scrittore lo ripete due volte e io ho pensato che non c’era bisogno di dirlo nemmeno una volta, perché attraverso le azioni e i dialoghi dei personaggi si capiva benissimo. Ecco, io odio sentirmi frustrata come lettrice e non voglio che i miei lettori si sentano così.
Ultima domanda: stai scrivendo qualcosa in questo periodo? Altri racconti o un romanzo.
Sì, sto scrivendo degli altri racconti e spero di completare la raccolta entro l’anno prossimo. Il tema comune è il tempo, ma per ora mi riesce molto difficile dire altro.
Qui la recensione di Svanire.