Lo scrutinio dei Pesci – il cui consiglio di classe comprende, purtroppo (e le differenze sono in peggio), quasi tutti gli insegnanti dei Merry Men – si è tenuto ieri pomeriggio, risolvendosi (contro ogni previsione) in maniera tutto sommato intelligente, rapida e indolore. Alla ‘povna piacerebbe, e molto, poter scrivere che questo è avvenuto grazie a un improvviso rinsavire dell’intero corpo docente, ma la verità, brutale e un po’ prosaica, è che l’andamento di (relativa) calma va tutto ascritto a una annunciata neve.
E così a lei, novella Kutuzov, non è restato che giocare di rimessa e – tanto le cose che le premevano di più le aveva già discusse (a lungo) con Pluto e soprattutto con Mafalda – mantenere (entro un certo limite: è ovvio) i toni volutamente bassi, confidando che la maggior parte della gente le avrebbe detto di sì per chiudere nel minor tempo: aggrappandosi, in una parola, all’alleato gelo.
Come risultato, quella classe – che, solo due mesi prima, nelle parole in libertà che erano volate tra tutti, sembrava uscita dalle Malebolge (e, no, per chi se lo chiede, giustamente: in questo tempo non sono poi cambiati molto, anzi) – ha riportato una varietà notevole di voti di condotta (con un 5, correttissimo; un po’ di 6 e di 7; qualche 8 e ben due 9). Non solo: si è potuto soprassedere anche sulle note ad minchiam (per par condicio, infatti, Max Gazzè si era esibito anche con loro), sono spariti gli insulti gratuiti e l’incapacità decisa di connettere il cervello. Perché i piùcheretti, a parte un po’ di moderata discussione sul comportamento, avevano solo fretta di mettersi sulla strada del ritorno, e dunque – mentre Pluto, Mafalda (che pur febbricitante era comunque la più calma) e un poco anche la ‘povna si dedicavano alacremente a compilare le scartoffie – si sono messi a chiacchierare, lasciando fare tutto a loro. Pluto si è prodigato, come sempre, in perizia informatica; le lettere da spedire a casa le ha compilate tutte Mafalda; una, irrituale, l’aveva scritta preventivamente la ‘povna, che (ovviamente) ha composto anche i discorsi generali sulla classe e sul gruppo, senza che nessuno dei moltissimi altri (con l’eccezione del collega di Woodstock, a controllare che venisse correttamente [le ha detto: "brava!"; "grazie"] verbalizzato il suo commento) si sognasse di puntare gli occhi verso loro tre che lavoravano, aspettando i sospirati moduli da firmare con destrezza, per potersi allontanare poi al volo.
Alla ‘povna tutto questo non fa piacere, ovvio. E non pensa nemmeno che sia giusto. Però per questa volta ha deciso, superando il suo connaturato piccolomaestrismo, che era meglio girare la testa dall’altra parte, portare a casa il risultato, un po’ kutuzovianamente, e poi tacere. E pazienza se nessuno dei colleghi che, come lei, avevano messo un meritato 3 in pagella alla Shampista era arrivato in consiglio con le motivazioni richieste e le strategie di recupero (così come ricordato la settimana scorsa, da delibera di collegio); e pazienza se la ‘povna ha dovuto, quindi, far copiare il suo proprio compitino a tutti quanti (ché tanto è abituata a lasciare i suoi quaderni a libro aperto dalla prima elementare); e pazienza se in questo modo coloro che hanno avuto il 3 in pagella si sono trovati la fotocopia di un improvvisato giudizio, scritto a penna, su carta di stampante bianca. E non perché la ‘povna pensi che le motivazioni debbano essere date a minchia e le strategie di recupero “rimandate” – con le parole che ha suggerito lei stessa (e che doveva fare?) agli scriventi – “a un successivo momento” (quale?); e, anzi, le sembra fortemente ingiusto che gli alunni gravissimamente insufficienti si debbano accontentare di un pensiero frettoloso, elaborato così, tra il lusco e il brusco, e solo per evitare una dirigenziale reprimenda. Ma perché quello che ha perso lei lo guadagnano gli alunni. Così – anche se si sente un poco in colpa, per non essere stata più incisiva e intransigente (e, come sempre, triste, molto triste, per le sorti della scuola) – al momento di consegnare l’attesissima pagella, potrà guardarli seriamente in faccia; e iniziare a lavorare, finalmente (e si spera senza intoppi), sull’epica di classe, con parole rigorose, ma mescolate di speranza che siano solo e tanto autentiche. Senza essere costretta (come accadde nello squallido consiglio di dicembre) a prestare la sua voce rauca, come un asettico megafono, a colleghi distratti che non sanno usar la loro.
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