Egitto: braccio di ferro senza fine

Creato il 26 agosto 2013 da Bloglobal @bloglobal_opi
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di Giuseppe Dentice

In un Egitto sempre più polarizzato, da settimane si susseguono manifestazioni a favore e contro i Fratelli Musulmani. Proteste e raduni contrassegnati da violenze e scontri soprattutto nei confronti dei filo-islamici. Non ultimi quelli andati in scena all’alba del 14 agosto e nei giorni immediatamente a seguire a Rabaa el-Adawiya e al-Nahda. Nel tentativo di svuotare i due presidi quasi permanenti dei filo-islamisti, la polizia e l’esercito hanno dato vita ad una dura repressione che secondo le stime ufficiali avrebbe provocato la morte di 830 persone, ma che la Fratellanza ha subito smentito parlando di almeno 2.000 vittime. Fratellanza che ha poi subìto anche l’arresto di circa 75 suoi affiliati tra i quali spiccano Mohamed el-Beltagy, segretario generale di Libertà e Giustizia e, soprattutto, Mohamed Badie, guida spirituale dell’Ikwhan e temporaneamente sostituito nella sua carica dal vice Mahmud Izzat.

Violenze e morti che hanno lasciato un segno anche nella compagine governativa: all’indomani del massacro del Cairo il Vice Presidente Mohamed el-Baradei ha abbandonato l’incarico in aperto contrasto con la decisione dei militari. La decisione del diplomatico egiziano è stata ritenuta da molti come un’azione opportunistica utile a salvare la propria immagine in vista di una sua possibile candidatura nelle elezioni presidenziali fissate dalla road map per febbraio 2014. In attesa che anche la sua posizione politica venga chiarita, il Vice Presidente dimissionario dovrà affrontare un processo per “aver tradito la fiducia della Nazione”.

Al contempo, altre due situazioni rischiano di far salire ulteriormente la tensione già alle stelle: da un lato, la proposta di legge del governo el-Beblawi di mettere al bando la Fratellanza e tutti i partiti filo-islamisti, con il conseguente rischio di polarizzare lo scontro giù atto, e, dall’altro, la decisione della Corte egiziana del Cairo di disporre la scarcerazione di Hosni Mubarak e la sua messa agli arresti domiciliari nella casa del rais a Sharm el-Sheyk. Situazioni, queste, che hanno tanto il sapore di una restaurazione e che rischiano di portare il livello dello scontro su un altro piano (laici vs militari).

Ma quanto accaduto in questi giorni nelle piazze del Cairo sembra essere una riproposizione della più cruenta resa dei conti tra due fazioni (militari vs islamisti) in lotta tra loro sin dallo scioglimento della confraternita nel 1948 e dalla condizione di clandestinità imposta al movimento da Gamal Abdel Nasser nel 1954.

L’origine dello scontro tra militari e islamisti non ha avuto inizio il 3 luglio – giorno della destituzione di Mursi -, o il 30 giugno – giornata della mega manifestazione popolare dei Tamarrud (i ribelli). Il malessere era più profondo e affondava le sue radici in quel 23 novembre 2012. Infatti, all’indomani della “vittoria diplomatica” conseguita al termine dell’ultima crisi di Gaza e dunque all’apice della sua massima notorietà e fama internazionale, il Presidente Mursi aveva proclamato un controverso editto che garantiva poteri quasi assoluti a quello che sembrava assurgere a nuovo padre e padrone della nazione più importante del mondo arabo-islamico. A questa situazione ha fatto seguito la battaglia in Assemblea Costituente e poi quella referendaria per l’approvazione della nuova Carta fondamentale nazionale, una versione variamente rafforzata della Costituzione del 1971 redatta da Sadat. Quel che è venuto dopo è storia recente. Tanti i messaggi lanciati dai militari alle autorità islamiche nei mesi successivi al referendum di dicembre, dapprima come avvertimenti di una non accettazione della violenza come situazione deviante per la sicurezza nazionale, poi con ammonizioni che palesavano un linguaggio sempre più deciso e insofferente verso tutte le iniziative del Presidente (i due rimpasti di governo, la scelta di rimuovere alcuni governatori con altri fedeli all’Ikhwan, la maldestra gestione della crisi del Nilo con l’Etiopia e la singolare decisione di interrompere le relazioni diplomatiche con la Siria). Se a queste situazioni si aggiungono le non decisioni in materia economica, vera emergenza nazionale, la scelta di intervento dei militari, anche a tutela dei loro interessi, è facilmente intuibile.

Eppure all’inizio della loro avventura, la coesistenza tra militari e islamisti era stata abbastanza buona, tanto da far azzardare ad alcuni commentatori un ridimensionamento delle forze armate all’interno dei gangli politici nazionali. Le sensazione era stata tanto più rafforzata dallo spettacolare siluramento nel luglio 2012 da parte del Presidente Mursi di Hussein Tantawi e Sami Hafiz Anan, vertici dello Scaf al potere durante la transizione. Nonostante il gesto eclatante e sicuramente poco gradito, i militari avevano accettato non solo le sostituzioni nelle alte sfere militari con Abdel Fattah el-Sisi e Sidki Subhi, ma avevano addirittura dato il loro placet alla Corte dei Conti egiziana per esaminare e sottoporre a controllo civile il variegato impero economico dell’esercito, un mondo coperto dal segreto di Stato e che secondo stime ufficiose dovrebbe contare un 1/3 del Pil nazionale, pari a circa 1.000 miliardi di dollari. Evento questo che neanche ai tempi d’oro dell’era Mubarak fu possibile da scardinare.

Quel che tuttavia emerge chiaramente da questa nuova crisi egiziana è un deciso passo indietro nella ricerca della democrazia e degli istituti ad essa collegati. Ad essere abbattuto non è stato tanto il Presidente islamista, quanto piuttosto il suo strumento (l’elezione) e la legittimità della scelta popolare, per la prima volta nella storia del Paese davvero libera. Legittimità che allo stesso modo i militari hanno provato a trovare e a giustificare cercando di usare la piazza per avallare il colpo di Stato e provando a dare così un’investitura democratica alle istituzioni appena erette.

Ma il silenzioso ritorno sulla scena dei militari sotto la guida attenta del Generale el-Sisi – questi unico dominus della politica egiziana (Ministro della Difesa, Capo di Stato Maggiore dell’esercito e primo vice Primo Ministro) – ha dimostrato anche l’impossibilità di un ridimensionamento o di un esautoramento delle forze armate come un semplice contorno dello scenario politico nazionale – cosa che invece sta avvenendo in questi anni in Turchia con la battaglia lanciata agli stati maggiori di Ankara dal governo islamico AKP di Erdoğan.

Il rischio concreto è che le parti vadano ad ingrossare le fila dei rispettivi estremismi. Da un lato un integralismo islamista sempre più intollerante e violento, dall’altro un nazionalismo anti-islamico che vede nei militari l’antidoto al dilagare delle violenze e l’alternativa possibile per uscire dalla crisi. Il problema è che in una situazione altamente caotica come quella dell’odierno Egitto, la mano dura dei militari finisce col dare argomenti perversi agli estremisti – vedi le ritorsioni violente e insensate contro i copti – fomentando, di converso, un’ostilità e un’intolleranza verso coloro che sono stati definiti nemici dello Stato. Allo stesso tempo è estremamente difficile individuare una soluzione pacifica tra le parti a meno che non venga meno una delle due, rinunciando alla lotta e venendo così irrimediabilmente fagocitata dall’altra.

Radicalismi che pongono anche un problema di sicurezza. A rischio sono i confini fisici e territoriali dell’entroterra egiziano: da tempo le frontiere con Libia e Israele vedono una continua scorribanda di criminali comuni, islamisti radicali e terroristi. A preoccupare maggiormente è il Sinai, diventato in questi due anni una sorta di palestra del terrorismo jihadista, come fu l’Afghanistan talebano durante gli anni Ottanta. Il governo centrale cairota per tentare di porre rimedio all’anarchia della ha provato a lanciare una pesante offensiva militare, denominata “Desert Storm, contro cellule jihadiste, salafiti radicali e criminali comuni attivi nella penisola. Ma a dare manforte all’Egitto potrebbe essere Israele: il nemico di sempre potrebbe giungere in soccorso del Cairo in via non ufficiale attraverso un supporto logistico e militare, costituendo così un atipico fronte unico contro la destabilizzazione e il terrorismo nell’area. Per contrastare infatti il crescente peso delle milizie qaediste lungo il confine con Rafah e la ripresa di lanci di razzi Qassam dalla Striscia di Gaza verso le cittadine del Negev, il governo Netanyahu sta cooperando con le autorità cairote – si veda l’attacco con drone avvenuto in accordo con i militari egiziani lo scorso 9 agosto nell’area di al-Ojra, 3 km dal confine meridionale, che ha ucciso almeno 5 miliziani del gruppo Ansar Bayt al-Maqdis e che, a detta dello Stato maggiore dell’IDF, “erano pronti a lanciare razzi contro Israele” – per evitare di avere un nuovo fronte caldo da dover necessariamente difendere dopo quello a Nord con Libano e Siria.

Il caos egiziano ha però prodotto effetti anche all’esterno del Paese mostrando in particolare l’impreparazione e, soprattutto, l’inadeguatezza della risposta occidentale dinanzi alla crisi. Infatti, al di là della condanna delle violenze e delle preoccupazioni per possibili derive anti-democratiche, il recente fallimento della mediazione internazionale ha sottolineato il ruolo da spettatori ininfluenti di Stati Uniti e Unione Europea. All’indomani della strage ferragostana Washington ha annullato le consuete esercitazioni militari congiunte, previste per il mese prossimo, minacciando inoltre l’uso di ulteriori misure restrittive come la riduzione degli aiuti militari ed economici (secondo i dati del Congresso USA, dal 1948 al 2011 sono stati versati all’Egitto oltre 71 mld di $, circa 1,5 mld annui). Una minaccia subito ridimensionata poiché comporterebbe pesanti ricadute strategiche e industriali anche per gli stessi USA, primi fornitoi degli equipaggiamenti e dei sistemi difensivi per l’Egitto. Mentre questa eventualità sta dunque scemando, rimane il problema politico: gli Stati Uniti mancano di una visione strategica lungimirante e dimostrano in questo particolare periodo storico di non essere in grado di tornare ad essere una potenza mediterranea e mediorientale come sono stati fin dall’immediato secondo dopoguerra. I fatti del Cairo, per non parlare della Siria, decretano ancora una volta sia la scarsa, se non addirittura ininfluente, forza politica degli Stati Uniti, sia il disimpegno della superpotenza verso un’area, il Medio Oriente allargato, ritenuto ormai periferia della strategia globale americana.

Ma se gli USA mostrano un’idea, seppur confusa e contestabile, chi manca davvero all’appello è l’Unione Europea. Bruxelles ha aspettato oltre una settimana prima di esprimere un giudizio unanime di condanna. Infatti, solo durante la riunione straordinaria del Consiglio dei Ministri degli Affari Esteri (19-21 agosto) ha stabilito una sospensione delle forniture di equipaggiamento armi e una possibile revisione degli aiuti economici all’Egitto anche se, come ha poi precisato l’Alto Rappresentante UE per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza Catherine Ashton, “spetta a ogni singolo Paese esaminare la questione”. L’ennesima crisi alle porte di casa dimostra dunque l’incapacità delle autorità europee di comprendere e di affrontare efficacemente le dinamiche della sponda sud mediterranea. Un caso emblematico è l’incapacità/inadeguatezza nell’affrontare il costante flusso di immigrati e profughi provenienti ora anche dall’Egitto (e dalla Siria), cosa che con l’incancrenirsi della situazione politica nazionale potrebbe costituire anche un problema per la sicurezza degli Stati rivieraschi della sponda Nord mediterranea.

Parallelamente, ad una minore forza politica degli storici partner europei e americani è corrisposta una sempre più evidente – e ormai imprescindibile per l’area – affermazione delle monarchie del GCC come attore politico determinante. Infatti se Washington e Bruxelles minacciano una riduzione degli aiuti, Riyadh, Abu Dhabi e Kuwait City possono tranquillamente rimpiazzarli con sostegni finanziari tre volte superiori a quelli occidentali. Il rischio è che l’Egitto possa però diventare terreno di scontro per la supremazia regionale tra le diverse fazioni all’interno del mondo sunnita facenti capo da un lato all’Arabia Saudita e dall’altro alla strana coppia Qatar-Turchia.

Pertanto quale credibile soluzione alla crisi egiziana? Al momento è difficile poter individuare una via di uscita plausibile che non comporti conseguenze di vario tipo. L’escalation di tensioni e violenze potrebbe portare il Paese verso una china ben più pericolosa del cosiddetto “scenario algerino” a causa degli innumerevoli attori e interessi di gran lunga superiori all’Algeria degli anni Novanta. Se all’epoca i vertici militari riuscirono a sigillare ed in un certo senso ad immunizzare l’Algeria da infiltrazioni esterne, questo tipo di realtà è difficilmente realizzabile nell’unico Paese guida della regione mediorientale. La crisi egiziana, più della Siria, della Libia o dell’Iraq, ha potenzialità devastanti e in grado di ridefinire intere dinamiche regionali e internazionali. In questo momento in Egitto si gioca una partita di domino, nella quale una mossa non ben ponderata rischia di far cadere tutte le tessere della scacchiera. Sullo sfondo resta una popolazione le cui aspettative sono state nuovamente disattese.

* Giuseppe Dentice è Dottore in Scienze Internazionali (Università di Siena)
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