Einstürzende neubauten, 28/11/2014

Creato il 12 dicembre 2014 da The New Noise @TheNewNoiseIt

Bologna, Teatro Manzoni. Ringraziamo Michele Maglio per le foto.

Sono passati quattro anni dalle due date bolognesi per celebrare i trent’anni di carriera degli Einstürzende Neubauten: un’atmosfera elettrica, calda e familiare nonostante la calca da sold out dell’Estragon. Chi c’era se lo ricorda bene. Le circostanze della presentazione di Lament al Teatro Manzoni sono completamente diverse, eppure i temi del passato e della memoria sono in qualche modo ancora fondamentali all’interno di un evento tanto atteso.

Lament è un lavoro incentrato sulla Grande Guerra (nel 2014 sono cent’anni) ed è subito chiaro che il concerto non sarà una semplice riproposizione dell’album ma una performance che si distanzierà moltissimo dall’ascolto domestico e che riuscirà a evocare traumi, deliri, sentimenti e paure del secolo passato, facendo tremare il pubblico nel tepore di un teatro italiano.

Blixa Bargeld impugna cartelli che uno dopo l’altro raccontano la personalità della guerra, disegnando una figura che si accresce nell’ombra delle insicurezze, delle menzogne e dei terreni accidentati calpestati dall’uomo, mentre Alexander Hacke e N.U. Unruh creano il putiferio di “Kriegsmachinerie” armati di lunghe catene e secchi pieni di oggetti che i due rovesciano, sbattono e rompono su una grande superficie metallica, mentre la bolla del conflitto esplode. Nel passaggio tremendo e ironico tra le angosce  e la disperazione degli uomini, le finte diplomazie e le becere sicurezze degli Stati coinvolti, “Hymnen” e “The Willy-Nicky Telegrams” mettono il luce come il potere tenti di nascondersi dietro l’esile corpo di un cannone, tra giochi di colpe e responsabilità, nutrendosi fino all’ultimo di autorità e violenza, munizioni che non possono sconfiggere un mostro allora del tutto sconosciuto.

“Der 1. Weltkrieg” è una rappresentazione sincronica della durata di quattro anni, un’installazione sonora fredda e razionale. Una grande struttura di tubi di plastica, in cui ciascun elemento rappresenta una nazione coinvolta, viene suonata a battute di 4/4, delineando i giorni (un accento) e scandendo gli anni. Blixa annuncia le potenze che entrano in guerra man mano che passano gli anni, e il tubo corrispondente entra in gioco sotto le bacchette frenetiche di Hacke e Unruh. Diciassette minuti di percussioni, diciassette milioni di morti. Il tempo è oltremodo spietato.

“Achterland” esplora una sfaccettatura più intima e conturbante, fatta di accampamenti, trincee, nebbia e lettere, tentando di raccontare la vita dei soldati, brevi momenti schizofrenici tra orgoglio e rassegnazione. Veloci battiti ansiogeni e tempi dilatatissimi raccontano notti buie dove la paura del prossimo ingoia l’intorno. Le parole di Paul Van Den Broeck, solitudine estrema e unione attraverso la morte (“Di sangue vivono tutti”), vengono recitate mentre Hacke cammina sul palco con un paio di stampelle sonorizzate, scandendo colpi sordi in uno sfondo sonoro tragico dove rimbomba il vuoto. Nella consapevolezza su sentimenti così lontani e difficili da afferrare, resi vividi e tangibili attraverso la musica, la triade di Lament spezza definitivamente un guscio di incomprensione, nelle orribili esplosioni di “Abwärtsspirale” e il conforto trovato nella preghiera dei prigionieri in “Pater Peccavi”.

“How Did I Die?” chiude simbolicamente un cerchio, partendo dall’esperienza globale fino a quella più introspettiva, in cui le parole di Blixa si sciolgono sul non-senso della morte, accompagnate dagli archi del Teatro Manzoni in un crescendo emozionante sull’importanza del ricordo e della memoria (“We didn’t die, we are back with a different song”).

Viene concesso un bis con qualche brano storico: “Let’s Do It Da Da Da” nel turbinio dei compressori riesce a risollevare lo spirito scosso del pubblico, ma ormai quel punto interno vicino al diaframma è stato toccato. Lament dal vivo ha spalancato porte che nell’ascolto su disco erano rimaste solo socchiuse e gli Einstürzende Neubauten si confermano come l’unico gruppo attivo per il quale ha ancora senso parlare di “avanguardia”, come hanno coraggiosamente fatto Giovanni Rossi e Kyt Walken nella monografia “Silence Is Sexy”, edita da Tsunami Edizioni.


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