Uno di questi giorni scriverò un post in cui vi chiederò quali film recenti valga la pena recensire, visto che i sondaggi si sono dimostrati inutili.
Ora, nel parlarvi di questo film, che ho visto mesi fa su consiglio di Alex McNab, sono vittima di un senso di straniamento, per cominciare, e poi di un’incazzatura enorme; una di quelle robe che, al lunedì mattina, non fa proprio bene.
Lo straniamento è dato dai nomi degli attori protagonisti: Leonardo Sbaraglia e Maria Valverde.
Nomi italiani. Ok, il primo è nato in Argentina, la seconda in Spagna. Però, la matrice è quella dello stivale. Non c’è dubbio. Questi nomi, italiani, risuonano raramente su questo blog, insieme ai film italiani dove essi dovrebbero figurare.
Questo è un film che noi altri avremmo potuto tranquillamente girare, con mestiere, ma che non abbiamo girato. Ci hanno pensato i nostri amichetti, ai quali va tanto di cappello per questo e per tutti i buoni prodotti horror e sci-fi che stanno mettendo in cantiere.
E, non so come, ma ho questa sgradevole sensazione che, anche nel caso in cui, per miracolo, qualcuno dei geniacci di casa nostra avesse voluto rischiare e investire denaro sonante per quella che è una riedizione dell’ennesima variante dell’Anabasi, non foss’altro che la meta non è la propria casa, il risultato sarebbe stato sciocco, in primis, e scadente, in secondo luogo. Infarcito di retorica stantia, per concludere.
Non ce l’ho con nessuno in particolare. Non faccio nomi appartenenti al nostro cinema perché, per la maggior parte, li ignoro.
Questo è, in tutta franchezza, lo stato di disillusione in cui sono rispetto al modo di fare cinema in Italia, e al quale sono stato portato da decenni di fuffa sistematica. A tutti i livelli. E, beninteso che esistono le eccezioni, chi le conosce, affossate come sono?
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Uno qualunque
Polemica a parte, El rey de la montaña è, guarda caso, correggetemi se sbaglio, inedito in Italia. Ho smesso di domandarmi il perché. E sinceramente non me ne frega più un cazzo. Sogno, in ogni caso, di andarmene a lavorare e a scrivere all’estero.
Cosa che sorprende, guardando il film, è la qualità della fotografia. Filtrato o no, non importa, il panorama montano, ricoperto di fitta boscaglia e attraversato da strade isolate che si addentrano nel nulla, è evocativo.
Quim (Leonardo Sbaraglia) è in una fase della vita che, a meno di non essere estremamente fortunati, capita a tutti. È sulla via del fallimento. Annaspa in una serie di problemi, finanziari, sentimentali, un incasinamento fin troppo familiare per non sembrare realistico e persino opportuno.
Bea (Maria Valverde) è anche lei una che tira a campare, seducendo, non si sa se per mestiere o opportunità, i bei tizi che incontra nelle stazioni di benzina, e fregando loro il portafogli.
Quim si accorge di essere stato derubato, ma in cambio lei gli ha dato un bel regalo. Ragion per cui, lui pretende solo indietro i documenti, probabilmente è anche disposto a parlarle, a capire, a essere disponibile solo come certi tizi ingenui e feriti sanno essere.
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Territorio
La strada porta nell’entroterra, dove entrambi i versanti sono soffocati da fitta vegetazione.
Paesaggio che ci hanno anituato a credere esista solo negli Stati Uniti, ma che in realtà è facilissimo trovare, e perdersi dentro, anche nella nostra cara Europa.
La zona in cui si smarriscono e si ritrovano, Quim e Bea, è territorio di caccia di un gruppo di locali.
Nessun motivo apparente, nessuna provocazione da parte dei dispersi, tranne, forse, una violazione implicita di un dominio considerato privato. Ma non è importante.
È piacevole, invece, notare come la sorda normalità venga infranta a poco a poco, da una situazione aberrante.
Ho definito sorda la quotidianità, per richiamarmi alla sequenza di grande effetto durante la quale l’auto guidata da Quim viene colpita da una proiettile e lui, per nulla avvezzo alla situazione (e chi lo sarebbe, in fondo?), non comprende l’accaduto e, anziché fuggire, finisce per infognarsi ancor di più nel pantano.
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Ritardo
Credibili, tutto sommato, le interazioni tra i protagonisti, braccati e che a mala pena hanno condiviso quei momenti di intimità, necessari all’intreccio per giustificare un minimo di attrazione reciproca, ma non vincolanti, tali da far commettere loro iperboli romantiche del tutto inopportune.
Ovvi richiami a Deliverance e I Guerrieri della Palude silenziosa, per quella che resta una storia sempre avvincente e che guardo con invidia per le ragioni esposte nell’introduzione di questo articolo.
Unica pecca, ed è un errore pesante, è proprio da ravvisare nel preteso colpo di scena finale.
Sul quale taccio, com’è giusto che sia. Quelli che tra voi hanno visto il film sanno bene a cosa mi riferisco, per cui, mi limito a dire che tale svolta narrativa arriva con almeno un quindicennio di ritardo, quando, con l’avvento di certi giochi per PC, si scatenarono note polemiche, rafforzate poi da determinati episodi di cronaca, che portarono a riflettere sulla presunta, nefasta influenza di certi modelli di intrattenimento responsabili di alterare, nelle menti suscettibili, la percezione della realtà.
Tutto questo, corroborato da alcune sequenze allusive in prima persona, avrebbe potuto risultare spiazzante a suo tempo. Dopo tanti anni e tante discussioni scorse sulla carta e non, non suscita altro che una lieve delusione.
Per fortuna, El rey de la montaña si dimostra spietato e cinico in più occasioni, ragion per cui riesce a restare a galla e a conservare una certa dignità.
Link utili:
La recensione di Alex McNab
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