Eleanor Cole – Episodio 8

Creato il 13 giugno 2012 da Fant @fantasyitaliano

 Gli Ammit avidi la frugarono dappertutto, la spogliarono del radiofaro, le granate, le pistole e lo zaino; ammucchiarono il bottino in un carrello a rotelle. Eleanor tremava d’ogni strattone di grinfie che le toglievano quelle cose di dosso, degli indigeni con i coltelli che le strappavano le asole, le cinghie, gli alamari: rischiavano soprattutto di lacerarle la tuta.

Con due giri di catene da paranco Farinelli fu legato ad una trave: l’automa scricchiolò, si piegò sotto i ceppi. Un Ammit lo allacciò con un guinzaglio di gomena, lo costrinse a risollevarsi e marciare.
«Compagnia delle Galassie Orientali!», Eleanor strillava, «mi capite?! Non voglio farvi male, vengo in pace!»; le infilarono la testa in un sacchetto per l’immondizia, le strinsero i polsi in un lacciolo di fil di ferro. Eleanor intuiva accanto a sé Farinelli inciampare e rovesciarsi sotto il peso dell’asse, e udiva i carcerieri che lo battevano con i mazzuoli. Sentiva grugniti sadici, sibilare di fiamme ossidriche. L’angoscia la soffocava:
«Che cosa volete fargli?! Selvaggi! Schifosi!»
L’automa pigolava fra gli scoppi di scariche. Eleanor, con il sacco che la ottundeva, quasi non riusciva a intenderne le parole:
«Sto bene, signora, il sistema è protetto; il sistema non ha subito danni…»
«Ascoltami! Ascoltami!», le si ruppe la voce: sapeva che erano segni di guasto, «non sei solo sistema: ti chiami Farinelli; e non parlare in terza persona come un oggetto! Tu…», Eleanor ripeté la litania impotente finché la rabbia non gliela torse in ruggito. Pianse, scalciò, menò spallate tutt’attorno, alla cieca.
Poi quel colpo orribile alle reni. Svenne.

Aprì gli occhi stesa a terra su un fianco, la assordò Farinelli: rovesciato accanto a lei supino su un pavimento di calcestruzzo sbreccato.
Un Ammit la calpestava con gli stivali da minatore, le strappò dallo scafandro quel sacco nero dell’immondizia. Lei sentì gli zac di cesoie e tronchesi, si sentì i polsi liberi dal fil di ferro, e vide l’automa sciolto dalle catene. Udì uno stridio. Fu accecata dal rettangolo di una porta che si apriva e richiudeva fra quattro mura di oscurità.
Eleanor tentò di sollevarsi sui gomiti: il rene avvampò, gemette e tornò stesa. Riuscì a distinguere un uscio arrugginito, gli indigeni che uscivano, lucchetti. E poi di nuovo buio.
Eleanor strinse i denti, si alzò sulle ginocchia: «ce la faccio», ripeté, «ce la faccio, goretex benedetto!»; sopportò il dolore al fianco, che in effetti scemava, e ginocchioni si trascinò su Farinelli.
Nella fitta oscurità della cella scorreva le dita su quel corpo d’ottone, la maschera d’argento, gentile e stupita, e la squisita tecnologia del suo valletto-roboto. Eleanor ne conosceva così bene i dettagli, e le metalliche rotondità da intatto, che nel buio soffrì per le ferite dei bruciatori, le ammaccature sulla corazza e le crepe nei crisoliti. E temeva che sarebbe impazzita non fosse stata per le tenebre pietose che le occultavano l’automa sotto una sindone nera:
«Sei operativo?!», gli singhiozzava sul petto freddo, «Che cosa ti hanno fatto?! Riattivati, è un ordine!»
«A voi almeno non han tolto la carcassa», disse fioca, anzi infastidita, una voce dai recessi della cella, «qualcosa ci si ricava. Calmatevi, sì?»
Eleanor guaiolò, si schiacciò sul pavimento.
Farinelli si riaccese all’improvviso con un cupo, spaventoso ronzio, che salì d’intensità fin un bubolo sinistro. Rovesciò ad angolo giro la testa, puntò all’angolo gli abbaglianti oculari: una donna in tuta spaziale senza casco e respiratore, scarmigliata, sporca, smagrita, fuggiva coprendosi gli occhi da quel fascio di luce bianca.
Eleanor grattò dal pavimento una scheggia acuminata di cemento sbriciolato, scattò in piedi, la brandì contro l’estranea:
«Chi siete?!»
«Spegnete i fottuti fari, volete?! Prigioniera come voi, da più tempo di voi: mi uccidete così! Lasciate che mi abitui!»
Eleanor guardò l’automa con gli occhi rossi di pianto, «… è un ordine, attenua», sussurrò con dolcezza. Sorrise, lo accarezzò. Nel chiarore degli abbaglianti prendeva atto delle sue ferite.
«Eseguo, signora», Farinelli smorzò le luci: le ridusse ad un alone riposante che avvolgeva quasi solo loro tre, «che colore preferite? Suggerisco l’azzurro.»
«Sono contenta che tu stia bene.», Eleanor bisbigliò, e teneva la scheggia alzata pronta ad affondarla nel cranio dell’estranea.
L’automa lentamente tornò in piedi, girò la testa a 360° a contemplare il proprio involucro malridotto:
«Nulla che un orefice non possa risistemare. Ma temo vi costerò un patrimonio, stavolta.»
«È il software che conta, non l’hardware», disse Eleanor.
L’estranea s’intromise con un «ehm», si sfregò e sbatté le palpebre per ancora qualche istante; si scrollò la tuta logora bianca e, con un inchino perfetto:
«Delfina Balti, Compagnia delle Galassie Occidentali, rango: Esploratore; per servirvi signora. Con chi ho l’onore, se posso?»
«Eleanor Cole, Compagnia delle Galassie Orientali, rango: Antropologo. E il mio valletto, Farinelli. Vi sono serva.»
L’altra batté le nocche sul guscio del roboto:
«Bel pupazzo: ne avevo uno anch’io. Come ho detto, non ha avuto fortuna con gli ottentotti là fuori. Ora, ottemperate queste stupide formalità», disse ammiccando a quella scheggia di calcestruzzo, «vorreste per cortesia disfarvene? Ne abbiamo già abbastanza di selvaggi, mi sbaglio?»
Eleanor s’imporporò. Scemata l’adrenalina, il dolore e lo spavento, si accorgeva della miseria di quell’atavica situazione: «in una cella polverosa e buia», la rabbia e l’imbarazzo le torcevano le budella, «ovvero una caverna, checché di cemento, ringhio ad un mio simile e lo minaccio con una pietra. Nel 2669, nell’estrema Via Lattea, contraddico i miei principi, disonoro l’antropologia». Si sbarazzò della pietra.
«Se volete, potete togliere lo scafandro», Delfina proseguì, «mi vedete: qui non ce n’è bisogno.»
Eleanor ammiccò a Farinelli: gli occhi dell’automa brillarono di luce verde, cui seguì, con un clic di puntina di giradischi, tutto un sinistro, scoraggiante e infallibile file sul contrarre il tumore per un soggiorno su Ammit.
«Io sono convinta mi ammazzerà, prima, una fottuta pallottola, un’esplosione, un impatto di meteorite, qualcosa di schifoso e d’alieno con più di quattro arti e molteplici déi. Il tricasco si logora, scoperti si è più comodi: fate come vi pare, signora.»
«Com’è possibile respirare quest’atmosfera?»
«Aria, respirare, sono termini esagerati: fa schifo, sa di piombo, ma tre boccate e t’abitui. Che accidenti ne so? È una specie di microclima di queste loro città. O i moduli terraformanti che funzionano dal ’400.»
Eleanor si tolse i guanti poi, con le mani che le tremavano, slacciò una a una le cerniere dello scafandro. Lo tolse, respirò: un’aria densa, puzzolente e bruciante le riempì le narici e la trachea; la gola le si riempì di catarro, le bruciavano gli occhi. La tosse la piegò, si appoggiò a Farinelli, il tricasco le cadde, il roboto lo raccolse. Lei, con la vista appannata e i conati, temette l’asfissia e tentò di rindossarlo.
Delfina scansò il roboto, le tolse lo scafandro, la sorresse e le batté sulla schiena.
«Sputate e respirate», le disse, «di nuovo.»
Eleanor espettorò, si costrinse a inalare, quell’aria velenosa le tornò nei polmoni. Ma respiro dopo respiro si accorgeva di sopportarla.
La Balti illuminò le labbra piene, le iridi glaciali, gli zigomi affilati, di un sorriso sincero un po’ equino e cafone:
«È il peggior tiro di sigaretta in vita vostra, scommetto?»
Lei si rasciugò gli occhi e la bocca, il fiato le tornò, scoppiò in una risata, «è la prima che fumo: non mi pare granché», e tese all’esploratrice la mano ferma e cordiale. «Grazie.»
Farinelli, a quel gesto d’intesa, s’inchinò con un esausto pispiglio esausto:
«Se posso, signora, vorrei spegnermi un po’: mi farebbe gran bene. Manterrò però la torcia, per non lasciarvi all’oscurità.»
Eleanor annuì. Il roboto si ritirò in un angolo della cella, lì si fermò inerte, come una lampada a stelo. La quieta luce azzurra avvolgeva la prigione.
Lei tirò lo zip della tuta, cavò la tabacchiera da una tasca della giubba. La aprì verso Delfina, le offrì del kentucky, «rifacciamoci il naso: gradisce?»; l’altra pizzicò le foglie secche, brune, ed esitò sulle parole latine sull’argento del coperchietto:
«Umanità e profitto. Davvero ci credete?»
«Mi ci impegno. Voi, piuttosto?»
«Viceversa io temo che l’umanità si trovi sepolta sotto molti, troppi strati di profitto. Quanti non posso dirlo: scavo, li accumulo; mi accadesse di trovare l’uomo sarò lieta di ricredermi.»
«Cosa vi porta su Ammit?»
«Me lo chiedete da compagna di sventure oppure», l’esploratrice s’irrigidì, «come agente di un istituto concorrente? Non che faccia la differenza, nel nostro schifo di situazione, ma… Sul vostro onore, fra questi barbari sudici?»
Nel debole chiarore dei fari dell’automa, e nonostante il sudiciume e il logorio del carcere, Eleanor si accorgeva con quale orgoglio la Balti indossasse quella candida uniforme; il colore, e le mostrine di un altro lato della Galassia rispetto al blu scuro che ostentava lei stessa. La invitò ad accomodarsi sul pavimento e per prima concesse il suo tassello di verità:
«La Compagnia delle Galassie Orientali», scandì, tenace, penetrandole gli occhi azzurri, «proteggerà le multigalattiche che investiranno su Ammit.»
«Piuttosto spetterà alle Galassie Occidentali.»
«Abbiamo scaricato tonnellate di materiale.»
«Hangar interi di moduli commerce-forming.»
«Agli indigeni non interessano. E, non so da quanto tempo siate qui detenuta, ma il nostro presidente è stato ucciso su questo mondo. Ieri, nel corso di un attentato.»
«Gli indigeni hanno le loro difficoltà; strane difficoltà», Delfina insistette cupa, fece un segno di scongiuro, «e mi dispiace per il vostro presidente, ma da mesi nostri scout scompaiono su questo mondo.»
«C’è all’opera qualcosa di diverso, primitivo, sinistro: che può saperne un’esploratrice?»
«Ammit è una graticola, un trabocchetto d’acciaio: come spera una testa d’uovo di sopravvivere? Ciò che conta», e la Balti graffiò sul calcestruzzo, «è che entrambe siamo qui prigioniere.»
Eleanor percorse il perimetro della cella. All’angolo opposto della porta di acciaio, formidabile benché ruvida d’incrostazioni e di ruggine, c’erano una turca e una cannula di rubinetto. Nel buio del soffitto, tre metri sulla sua testa, barriva un ventilatore imbullonato dentro una grata.
Nient’altro.
«Quando servono due volte il giorno il rancio», Delfina scosse il capo in un no, prevenendo la sua ovvia domanda, «entrano in quattro, attrezzati e robusti.»
«Ora abbiamo il roboto», Eleanor ringalluzzì. L’altra s’inginocchiò su Farinelli inerte, scorse un dito, con una smorfia, sulle bozze e le bruciature.
«Da quando siete qui?»
«Trenta giorni: in anticipo di due mesi sui vostri moduli commerciali a spiare e riferire sui feedback. Gli indigeni mi hanno preso dopo tre settimane.»
«E vorreste ancora attendere ai loro comodi?»
«Come altro sperereste di uscirne?»
La porta di metallo stridette di lucchetti, e una lama di luce diurna, sabbiosa, penetrò dentro la cella con il calore da fuori.
L’uscio mugghiò, graffiò il pavimento: una dozzina di Ammit a capo nudo, massicci, che brandivano spaventose piccozze, spalancarono i battenti a due vecchi ingobbiti.
«Farinelli!», Eleanor sussurrò; l’automa si svegliò dallo standby, gli indigeni li circondavano con le corde e i picconi.
«Questa volta non ce n’è bisogno», Eleanor restò calma, chinava la testa nuda; umile e rispettosa s’inchinava agli anziani. Delfina la imitò:
«Eccovi esaudita, fortunata amica mia: spero sappiate quel che state facendo.»


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