Gli Ammit le trascinarono a una piazza riarsa circondata ai sei lati da piloni di acciaio. Le colonne sostenevano matronei rugginosi, aguzzi di ondulati sbiancati e corrosi. Al centro della piazza, su una predella di calcestruzzo, Eleanor inorridì di un antico paranco cui pendevano orribili trofei: gli arti mutilati di automi fatti a pezzi; i loro liquidi, gli ingranaggi, le interiora di gomma insozzavano la piattaforma infestata dai moscerini.
Tutt’attorno a quell’orrendo altare, avvitati nel cemento o pencolanti a gancetti, osservò inequivocabili amuleti, corone ed ex voto sbalzati su rottami troppo avveniristici per gli standard del pianeta: ceramite, microchip, plastacciaio…
«… parti di astronave!», Eleanor indovinò; riconobbe anche le placche della capsula sulla quale era scesa, «Ecco cosa ne fanno: reliquie.»
Si accorse che gli indigeni, tutt’a un tratto intimoriti, sbirciavano con apprensione certi ombrosi pertugi, i tombini delle fognature o gli interstizi fra le colonne.
Si allontanò di qualche passo dai carcerieri per riuscire più da vicino a distinguere gli sbalzi: gli infantili bassorilievi ritraevano figure umane che scampavano a gigantesche mostruosità; la materia arrugginita le impediva di riconoscerle.
«Assomigliano a insetti», azzardò Farinelli.
«Mi fanno schifo già abbastanza al naturale», Delfina rabbrividì, «quelli, sembrano grandi dieci metri, deformi.»
«Gli ex voto sono simbolici, lo sbalzo è ingenuo ed esagerato.»
«Insisto: è come avessero qualcosa di perverso.»
Gli indigeni le strattonarono, le azzittirono a grugniti, le allinearono ferme sotto i soli accecanti. Sollevarono loro il mento con i pomoli delle mazze. Delfina non smetteva di insultarli a denti stretti, «tacete», Eleanor le impose.
I tre nativi curvi, canuti, claudicanti, dalla pelle ustionata, si chinarono fin gli stivali magnetici a studiarle l’equipaggiamento. Confrontarono la sua tuta con l’uniforme di Balti: gli allacci, le dotazioni, le fibbie. Poi la guardarono finalmente negli occhi.
Di là dal velo degli anni-luce e dei secoli, Eleanor ritrovava in quei sembianti abbrutiti i medesimi volti morti che aveva visto negli schedari, i dagherrotipi di una Terra incivile che seppellì generazioni nei pozzi delle miniere. Questi vecchi, che gli altri circondavano riverenti, dai bicipiti e le spalle impressionanti ma piegati più degli altri dalla scoliosi, bruciati più dai gas che dai soli, arrochiti di silicosi, dovevano essere Capo-Scavo, leader di minatori.
Eleanor, nel pigro lungo viaggio per Ammit, aveva ripreso i suoi testi universitari e riletto ogni scibile sui sindacati di cinquecento anni fa; i suoi capi carismatici, laici: «sarebbe stato meglio», inghiottì intimorita, «che mi fossi preparata sugli sciamani preistorici.»
«Voi non siete un soldato o venditrice», il primo vecchio la apostrofò senza incertezze nella pronuncia, «ci sembrate una studiosa, ho ragione? Tuttavia portate bombe a mano e pistole: vorreste spiegarvi?»
«Parlate la nostra lingua!», Eleanor sbigottì. Delfina a quelle limpide parole scaricò sugli anziani una raffica d�fimproperi:
«Mi avete tenuto settimane là sotto senza ascoltare una fottuta ragione! Mi avete fatto a pezzi l�fautoma! E mi avete grufolato in faccia quando invece�c Fatevi fottere, cavernicoli porci!»
«Voi siete sbarcata con una capsula oscurata, percorrevate l�finsediamento furtiva con un fucile lanciarazzi in spalla», contò serafico in punta di dita il secondo dei Capo-Scavo, «cospargevate la vostra strada di booby trap e sempre vi acquattavate con un binocolo a spiare la nostra gente e la vostra. L�fautoma era piuttosto un cannoncino d�fassalto montato con un mirino laser su un tripode da free climbing. Al primo approccio avete vuotato un caricatore.»
Eleanor esterrefatta fulminò l’esploratrice, quella arrossì: «ma credo neppure voi siate stata sincera.»
Lei stornò lo sguardo, cupa, al primo Capo-Scavo che attendeva la sua risposta:
«Sono una scienziata, sono un’umanista: non uccido un essere umano, non distruggo culture: piuttosto favorisco il loro incontro. Comprenderete che in alcune circostanze sia costretta a difendermi: sulle pistole troverete le mie iniziali, le bombe sono un lascito di amici. M’inseguivano i vostri bipodi: non ho usato quelle granate, c’erano dentro piloti vivi, non avrei mai potuto.»
«…magari l’avesse fatto», la interruppe la Balti, «saremmo da un’altra parte, e qualche negro di meno»; un carceriere la ammutolì con un cazzotto allo stomaco.
«… ma per la causa del benessere dell’umanità», Eleanor sibilò, «sono pronta a usare ogni mezzo contro ciò che ci nega la retta via alle stelle.»
Il secondo Capo-Scavo le sbatté sotto il naso un bidone di metallo traboccante di strumenti:
«Parliamo la vostra lingua, signora: la abbiamo appresa rintronati dai decibel, dagli slogan ininterrotti trasmessi per ore da che iniziaste la vostra campagna pubblicitaria. Siamo un popolo sobrio: non ci interessano il vaniloquio e il superfluo»; il minatore si guardò attorno sempre più preoccupato, mormorò nella sua lingua una specie di salmo, «dateci tecnologia.»
Eleanor nel fusto riconobbe le sue cose; Delfina guardava con interesse particolare alla canna brunita di un fucile esplosivo. Gli Ammit tamburellavano sul bidone.
«Chiedete tecnologia, ma praticate la magia nera.»
Eleanor su quel concetto esitò: le parole, pur se era immersa nel sole torrido abbacinante, le provocarono come una fitta di oscurità; dai recessi che i nativi spiavano con apprensione udì un insistente e disgustoso strofinio.
Gli Ammit trasecolarono, si raccolsero sull’altare. Quasi si aggrapparono agli ex voto:
«Che cosa ne sapete voi della magia?»
«So che su questo mondo la anteponete alle leggi fisiche, la preferite al raziocinio e la scienza. V’inchinate innanzi a altari di ferrovecchio, praticate sacrifici umani: a tal punto ottenebrati che funziona ma non dovrebbe. Questa è una stortura, l’universo è differente.»
«Qui ci sono tenebre e superstizioni che non rischiara nessuna lampada alogena, signora; che durano da sono quasi duecento anni; che sbugiardano ogni logica e buonsenso, teoremi, corollari e teorie. Vorrei vedere voi, se nel buio per un secolo e mezzo, non ne usciste abbrutita e disperata.»
«A me è bastato un mese», la Balti nicchiò.
Gli anziani agitarono l’ultima volta il bidone:
«Cos’altro avete da offrire?»
«Ho già studiato culture e mondi magici», Eleanor implorò, «sono convinta che…»
Gli anziani, spicci, più pallidi ed esagitati, puntarono il dito e le piccozze su Farinelli:
«Basta chiacchiere, prendiamoci il roboto»; gli Ammit lo afferrarono in quattro, lo costrinsero sull’orrido paranco.
Eleanor si buttò nella mischia: fu subito stesa a terra dalla mazza di un carceriere; gli indigeni la rotolarono sul cemento e la pestarono con gli scarponi chiodati.
Delfina spaccò il naso di un Ammit, spintonò gli aggressori, la aiutava a rialzarsi: «ai coglioni, signora»; menò di punta sull’inguine di un avversario, quello si accasciò sulle ginocchia. Eleanor lo stese con un pugno, lo scavalcò, salì sulla predella, si avvinghiava agli anziani minatori che serravano l’automa fra gli strumenti da carrozziere.
Sentì un tonfo dietro di sé e abbaiare l’esploratrice:
«Crepate, bastardi!»; si trovò presa alle braccia e le gambe e di nuovo, con Delfina, schiacciata a terra sotto il tacco degli Ammit.
Gli indigeni tornavano da Farinelli.
Eleanor, offuscata dal dolore e le lacrime, assistette al rituale primitivo e crudele che l’automa subiva dagli idioti Capo-Scavo: lo dipinsero di smalto nero ad aerografo di simboli infantili che imitavano circuiti, segni religiosi dagli albori dell’umanità; lo misurarono con il calibro, lo pesarono su una bilancia.
Gli abbassarono un trapano elettrico sulla fronte e quattro seghe circolari sugli arti.
Il roboto cantava il Quando Corpus di Pergolesi, le lame gli fischiavano sulle membra. L�faltare e i minatori-sacerdoti brillavano nello scroscio delle faville.
Eleanor si sentì mancare il cuore. Chiuse gli occhi. Gridò.
Poi sentì quel tremolio delle pareti, quel graffiare l�facciaio, quell�forribile ticchettio. Che crebbero d�fintensità più dell�furlo e le vibrazioni. Balbettii di terrore. E un puzzo di carcami infettò tutta la piazza.
Si sentì libera dal piede dell�fAmmit che le premeva sul petto, tutt�fattorno impazziva un calpestio. La voce di Delfina, l�fesploratrice che la scuoteva:
«Svegliatevi, signora!»
Eleanor aprì gli occhi. Sull�faltare abbandonato a seghe elettriche ferme, nell�facre vapore dei metalli bruciati, le apparve Farinelli graffiato ma intatto.
Eleanor squittì di contentezza; indifferente alle catene e i danni, il roboto rispose «scutigera coleoptrata»: e lei si accorse che le sue lenti le erano fisse molto sopra le spalle.
Si girò. Un orrendo gigantesco chilopode strisciava sul ventre molle dal reticolo del matroneo.
L’insetto si calava a infilzare con gli aculei, che gocciolavano d’umori gialli, protesi tre metri in basso, due dei minatori che le tenevano prigioniere. Appiccicato alle pareti della piazza per le quindici zampe lunghe e sottili, strisciava sulle sue spire, di viscida chitina pallida, sui nativi terrorizzati che si acquattavano nel colonnato.
Eleanor affondò nel fustone, raccolse il radiofaro, le pistole e lo zaino; trovò qualche manciata di munizioni. Gettò le bombe a mano e il fucile all’esploratrice, saltò sull’altare:
«Libero il mio valletto. Copritemi.»
Delfina si appostò ginocchio a terra, puntò la carabina al carapace del mostro.
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