INTERVALLO – 2510
Guderian ordinò di fermare, Montoya e Fisichella schiacciarono sui pedali.
Il dustrider si arrestò sull’altura fuori dai cancelli dei cantieri delle fabbriche, all’ombra di un grande silo, completato a metà, che già s’innalzava dieci metri dal suolo. I nigga-robot nelle buche e le impalcature scavavano e saldavano instancabili ed efficienti, conformi ciascuno ai rispettivi programmi, indifferenti dell’enorme cingolato che manovrava nell’area fra i tracciati di fondamenta.
Guderian si sporse fra i due sedili, batté una pacca sulle spalle dei conducenti:/em>
«Attenti a non schiacciare le marionette: ci toccherebbe risarcire l’impresa edile, ce li detraggono dallo stipendio; sa Dio quanto costano.»
Montoya e Fisichella ruotarono il dustrider concentrati sugli schermi circumvisori: «hanno un giorno di autonomia», grugnirono, «le infiltrazioni di sabbia… 480° all’ombra su ‘sto pianeta di merda. Ma se per caso ne investiamo uno noi…»
«Le cose stanno così», Guderian li consolò. Vertov lo
chiamò dalla torretta:
«Capo, siamo sicuri che sia il posto giusto?»
Lui scattò sulla scaletta di metallo, si arrampicò alla postazione del teleaddetto rischiarata dai grandi schermi azzurrini. La panoramica sugli olomonitor comprendeva l’intera valle che si estendeva al di sotto degli inesausti cantieri: centinaia di chilometri di pianura riparati da un abbraccio di colline di arenaria.
«Eccome no?», scherzò tetro Guderian, «non ce lo vedi laggiù tutt’un canyon di casupole di onesti lavoratori, mogliettine e marmocchi? Milioni di poveracci che sette giorni alla settimana s’infilano lo scafandro e le bombole e la tuta, baciano le consorti nell’anticamera pressurizzata e salgono a morire di cancro nelle miniere e raffinerie. Terrestrial way of life.»
E accennò alle strutture che crescevano alle loro spalle, nel formichio degli automi operai, come si getta, per scaramanzia, del sale dietro di sé.
«Prima tirar su fabbriche, poi terraformare», smorfiò Vertov perplesso manovrando le telecamere, «non avrebbe più senso il contrario?»
Kaczynski si sporse dal sellino degli obici asciugandosi la faccia dai residui di gas:
«Prima il profitto. Le miniere e gli stabilimenti devono essere sfruttabili prima che l’aria sia respirabile e il pianeta abitabile: così la manodopera sbarcata può mettersi immediatamente al lavoro. Benvenuti coloni, eccovi il vostro Ammit: non preoccupatevi di deturparlo, era già un cesso molto prima che arrivaste. Far quattrini è un processo che una volta avviato non si arresta in nessun modo: persino più inarrestabile della nostra reazione di Bosch.»
Vertov si immalinconì sul panorama:
«Lei che ne pensa, capo, che è uno che ha studiato: non accadrà mai, nell’universo, che si pensi innanzitutto alla bellezza? La bellezza fa star bene, secondo me; è… bella.»
«Forse fra cento anni», tirò a caso Guderian, «noi non ci saremo, facciamo ciò che possiamo: le cariche sono pronte, Kaczynski?»
«Quando vuole, capo.»
Guderian ridiscese in plancia, ricevette le coordinate dalla Lactea Mining United e le dettò ai piloti e all’artigliere. Il dustrider si spostò dai cantieri, scese l’erta a una distanza di sicurezza fra le fabbriche in costruzione e la portata degli obici.
Montoya e Fisichella faticarono a tenere i manubri e frenare i grandi cingoli sul terreno sabbioso. Il dustrider acquistava velocità, minacciava di capovolgersi sul dorso di ceramite. I piloti sterzarono da un lato, pestarono sui freni, smorzarono i motori. Arrestarono il mezzo inclinato sulla sinistra, affondato per metà nella rena color ocra.
La simbiocamera, che all’esterno volteggiava sopra di loro, ne trasmise le immagini sugli schermi di Vertov: a Guderian ricordarono quegli antichi dipinti di rovine di cattedrale in certe plaghe disabitate; Caspar David Friedrich, gli pareva che fosse.
«Vaffanculo là sotto, mi è preso un colpo!», latrò Kaczynski nell’interfono, «non sapete più guidarlo ‘sto bestione, voi stronzi?»
«Ordini Kaczynski, ordini», Guderian scandì calmo al microfono, «Qui dovevamo essere, e qui siamo: che vuoi ne sappiano di pendii, nei consigli di amministrazione? Un mondo, su una carta geografica, è tutto liscio allo stesso modo. Avanti artigliere: tocca a te.»
Le cariche gorgogliarono nei condotti di lancio, gli strumenti confermarono la traiettoria degli obici, la parabola, l’alzo. L’iperidrogeno ribollì nelle canne ed eruttò dalle otto teste di acquazzone.
Investì la pianura.
«Diamo a questo mondo un aspetto migliore!», ululò l’artigliere.
Guderian, Fisichella e Montoya si scambiarono un’occhiata e ghignarono come il solito: non avevano mai modo, ciascuno al proprio posto, di assistere all’istante in cui Kaczynski faceva fuoco, ma erano sicuri che in quel mentre si masturbasse.
«Cristo!», Fisichella si piegò, paonazzo dal ridere, con il viso fra le mani inguantate, «chiediamo a Vertov di nascondere un’olocam. Vorrei proprio beccarlo a…», agitò il pugno chiuso in quel gesto eloquente. Ripetevano quel proposito ogni volta, non lo attuavano mai: Guderian riportava la disciplina con un cordiale ma deciso «ma va là…»; sapeva bene quanto poco bastasse a compromettere la convivenza di cinque uomini in un cingolato, dodici mesi di missione terraformante su una palla di rocce e polvere due volte abbrustolita.
Fuori l’iperidrogeno agiva: l’anidride carbonica dell’atmosfera extraterreste scoppiava liquefacendosi nei fossati della valle. Più in alto le colline fumavano, si scurivano di grafite. Guderian si alzò dalla poltrona e tolse da un box-frigo cinque lattine di Asahi:
«Anche per questa volta, grazie professor Bosch!»
Il ritratto in bianco e nero di un nobel nazista, rielaborato al computer ché ammiccasse sfrontato e scoprisse la dentiera giubilando “epic win”, sostituì sugli oloschermi l’orizzonte e le dune.
Guderian aprì i canali con Kaczynski e Vertov:
«Scendete ragazzi, ci facciamo una birra.»
«Capo», esitò il teleaddetto, «c’è uno strano segnale, che…»
«Non ora, rompicoglioni.»
«Insisto: dovrebbe ascoltarlo.»
Lui lasciò le quattro Asahi sul tavolo, prese solo la lattina per Vertov, lo raggiunse in torretta.
Trovò l’operatore, con gli occhi fissi agli schermi, che cliccava insistentemente sul mouse di un’olocamera.
L’inquadratura si stringeva da una panoramica a un campo lunghissimo, un campo lungo, un totale. All’indice radio delle solite trasmissioni, le frequenze degli altri dustrider, il centro operativo, le cave e i cantieri, si era aggiunto un segnale che assomigliava a un lamento.
«Un gemito», Guderian rabbrividì, «di dolore o piacere.»
Vertov strinse l’inquadratura a un dettaglio di cratere scavato dagli obici, un rettangolo di mezzo metro nella cornice degli oloschermi.
Balbettarono increduli, si sfregarono gli occhi. Vertov restò con l’indice nell’anello della lattina: sepolto fino al petto nel suolo color ocra c’era un anziano scheletrito ma vivo in veste logora, nera implorava soccorso.
«In tuta e tutti fuori, muoversi!», gridò Guderian nell’interfono, «vanghe e picconi, prontosoccorso, respiratori supplementari!»; in un istante l’equipaggio era ai portelli pressurizzati, sbarcava dal dustrider dalla rampa di acciaio.
Guderian guidò la squadra giù per l’erta abituato dall’addestramento ma attonito come in un sogno: a poche centinaia di metri davanti a loro, lambito da pozze d’acqua che si allargavano nella sabbia, negli scoppi della reazione fra anidride e iperidrogeno, quell’impossibile vecchio, prigioniero nel suolo, protendeva la testa e gridava “aiutatemi”.
Su un pianeta scoperto dall’uomo solo il secolo precedente. E sul quale le prime capsule erano scese trent’anni prima. Un individuo disseppellito da una bordata. Che indossava una tunica.
Guderian intuì che Kaczynski condivideva quei pensieri vertiginosi: l’artigliere si fermò qualche passo dal vecchio, lasciò cadere la pala e si segnò devoto. I piloti gli rimisero l’attrezzo in mano: «scava, coglione!», si inginocchiarono sull’anziano ad applicargli il respiratore.
Quello azzannò Montoya alla gola.
I denti gli affondarono nel nylon della tuta, non aprirono squarci; Guderian tolse l’uomo alle fauci che ancora, terrorizzato, piagnucolava «Madre de Dios!»
Kaczynski scambiò la pala per un piccone e ficcò la punta nel cranio di quella cosa: l’occipite si spaccò, ne sgorgò solo sabbia; l’anziano ghignò maligno. L’artigliere gli affondò nel petto, ma il ferro rimbalzò come contro una roccia.
La cosa rideva.
Guderian allontanò l’equipaggio, il mostro schiumava, latrava di un’empia fame, ma la terra ne frustrava l’immondo appetito.
«Qualunque cosa sia», ripeteva Kaczynski, «ho un panetto di plastico per questo figlio di troia», e barcollava scioccato al dustrider a fornirsi dell’esplosivo.
«Aspetta», lo trattenne Guderian. Raccolse la pala. Prese a scavare tutt’attorno all’orrore.
«Scherza, capo?!», guaivano i piloti, «lo libera, così!»
Lui non ascoltò, continuava a scavare. La frattura che spandeva sabbia nella fronte della creatura gli insinuava un impossibile, mostruoso sospetto. Liberava le clavicole, le vertebre, lo sterno. E il mostro schioccava i denti, sbavava, farfugliava
Tolta abbastanza sabbia, troppi metri tutt’attorno alla testa, lasciò cadere la pala. Gli tremarono le ginocchia, gli si chiuse lo stomaco.
Vertov vomitò.
La cosa ringhiava in antico europeo: tutti a scuola ne apprendevano i rudimenti, questo assomigliava per coincidenza al dialetto di una bisnonna di Fisichella. Ne tradussero il rabbioso delirio.
Guderian, nell’ombra degli scafandri, vide un’esca di terrore appiccare agli occhi altrui un incendio di insania:
«Questa… cosa… non può essere, capo; non può essersi così… fin qui. Sulla Terra non avevano neppure gli aeroplani quando… e Cristo, questo pianeta è grande due volte Giove, non può averlo…»
Tutto ciò che rimaneva di mortale, nel vecchio, era il cencio di quell’abito talare del secolo XIX della storia terrestre: l’addome e i genitali e le viscere, gli arti deformati, le cartilagini, e le ossa dal costato in giù, si radicavano profonde, disgustose, vaste e pulsanti nel suolo di quel pianeta; la faccia dissepolta era un bulbo, un’escrescenza.
«Tutti a bordo!», ruggì Guderian, li spinse a calci nell’abitacolo del cingolato, «Tornate a bordo! Via, via da qui!»
L’orrore rideva. Le folate di vento di una nuova atmosfera spandevano per la valle quel cachinno malvagio.
Ai margini del cratere spalancato dagli obici il dustrider riaccendeva i motori, i cingoli masticavano la sabbia.
Guderian, in poltrona di comando, incrociò l’ultimo sguardo, folle, disperato, di Fisichella e Montoya che spingevano sui manubri. Iniettavano gas. Il dustrider si inclinava ancor di più sulla sinistra.
Affondava.
«Vi muovete là sotto? Che cosa cazzo fate?», singhiozzava Kaczynski.
Lui s’interfacciò con i piloti. I subvisori mostrarono, sotto il ventre del carro, una gola di sabbia spalancata.
Golosa.
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