La notizia della morte di Philip Seymour Hoffman è piombata come un fulmine a ciel sereno sul mondo del cinema in una domenica di febbraio che volgeva al termine in Europa ed era appena cominciata negli Stati Uniti. Basta scorrere la filmografia e leggere i ruoli interpretati nella sua ricca carriera per capire il livello d’importanza che la sua scomparsa ha avuto per il cinema. Uno degli artisti più intensi e mutevoli della storia, così lontano dal cliché del divo hollywoodiano. Philip Seymour Hoffman era soprattutto un grande attore. Un magnifico attore. “Un sacco di gente mi descrive come paffuto o tarchiato. Ma ci sono tante altre scelte. Sto aspettando qualcuno che mi dica che sono almeno carino”. Aveva ragione.
Forti lineamenti biondicci, riservato, alle volte trasandato, grassoccio, con una voce profonda e così nervosamente brusca, non certo bello ma sicuramente fascinoso: Philip Seymour Hoffman aveva tutte le caratteristiche che una star del cinema non dovrebbe avere. “A sedici anni avevo deciso di fare l’attore di teatro, non pensavo che il cinema facesse per me. Pensavo che il grande schermo fosse riservato a persone speciali”, aveva detto tempo fa in un’intervista, “e io mi sentivo assolutamente normale”. La normalità del suo aspetto non aveva però fatto i conti con il vero lato speciale di Philip: il talento. Uno dei più puri che il pubblico avrà mai la fortuna di ammirare.
Nato nel 1967 in un sobborgo di Rochester, Philip Seymour Hoffman inizia a recitare al liceo dopo un infortunio al collo che gli impedisce di continuare a praticare lotta amatoriale. Da sempre attratto dalla recitazione e dal teatro, viene selezionato per partecipare al Theatre School alla New York State Summer School of the Arts, a Saratoga Springs. Dopo aver conosciuto i suoi futuri collaboratori Bennett Miller e Dan Futterman e aver conseguito un BFA alla New York University, fonda la compagnia teatrale Bullstoi Ensemble, con Steven Schub e lo stesso Miller. La sua carriera nasce e si sviluppa principalmente nel cinema indipendente, di cui diventa un importante esponente e del quale continuerà a far parte anche dopo il grande successo acquisito negli anni.
E’ quasi impossibile citare ogni partecipazione di Hoffman ad un film, a causa della prolifica capacità di collezionare quasi sessanta pellicole in vent’anni. Incisivo sia come caratterista che come protagonista, Philip Seymour Hoffman raggiunge il successo tramite il cinema d’autore e ruoli graffianti che sono poi diventati autentici cult, a volte più del film stesso. La partecipazione nel 1991 al film Triple Bogey on a par five hole di Amos Poe segna il suo debutto sul grande schermo, ma ben presto dimostra di non disdegnare affatto le grandi produzioni. Ottiene un ruolo da figlio di papà nel film di Martin Brest Scent of a woman – Profumo di donna; l’attore ha sempre ritenuto fondamentale la parte conseguita in questa pellicola per il proseguimento della sua carriera: “E’ stato un effetto domino da allora”.
Partecipa a Twister di Jan de Bont insieme a Bill Paxton e Helen Hunt, dimostrando già da queste prime pellicole la non comune bravura di caratterizzare efficacemente anche i ruoli più marginali. Nel 1997 Paul Thomas Anderson, che già gli aveva affidato una parte in Sydney, gli assegna un ruolo nel film che consacra la carriera del regista. In Boogie nights – L’altra Hollywood Hoffman è Scotty J., un nevrotico tecnico del suono che si innamora, non corrisposto, di un giovane attore porno californiano, interpretato da Mark Wahlberg. Quello di Scotty J. è uno dei primi personaggi dall’animo fragile, in continua lotta con se stessi e con la società che li circonda, che Philip Seymour Hoffman impersona con delicatezza passionale, creando una profonda empatia con il pubblico attraverso le sue interpretazioni così emotivamente forti e dolenti.
Ciò avviene anche in ruoli più disturbati e ossessionanti, come quello del maniaco telefonico Allen, che esplode la sua fissazione sessuale nei confronti di una donna uccidendo l’uomo che aveva osato stuprarla in Happiness di Todd Solondz. Dopo la partecipazione al cult dei fratelli Coen Il grande Lebowski, accanto a Jeff Bridges, nel 1999 recita ancora in un film di Paul Thomas Anderson: la pellicola è Magnolia, una delle preferite da Hoffman, dove l’attore è un comprensivo e sensibile infermiere che si prende cura del vecchio magnate Jason Robards Jr, malato terminale di cancro.
Prima di tornare ad esser diretto da Anderson nel ruolo di un focoso venditore di materassi in Ubriaco d’amore, Hoffman recita nel film di Anthony Minghella Il talento di Mr. Ripley, accanto a Jude Law, Matt Damon e Gwyneth Paltrow, e in Quasi famosi, dove è Lester Bangs, leggendario critico musicale degli anni ’60 e ’70. Nei primi anni 2000, le sue partecipazioni più rilevanti sono al prequel de Il silenzio degli innocenti, diretto da Brett Ratner e intitolato Red Dragon, e soprattutto al capolavoro di Spike Lee del 2002, La 25ª ora, dove Hoffman interpreta un insegnante innamorato della sua studentessa in uno dei primi affreschi cinematografici post-11 settembre.
La vera consacrazione è però del 2005: la sapiente e magistrale interpretazione dello scrittore Truman Capote in Truman Capote – A sangue freddo di Bennett Miller gli vale l’Oscar come miglior attore protagonista, battendo attori del calibro di Joaquin Phoenix, Heath Ledger, Terrence Howard e David Strathairn. Nel periodo post-Academy Award stupisce ancora una volta i fan e l’opinione pubblica vestendo i panni del villain Owen Devian in Mission impossible III, interpretando, ironia della sorte, un uomo in crisi e dedito all’eroina nell’ultimo tormentato film di Sidney Lumet, Onora il padre e la madre, e partecipando a Le idi di marzo, diretto da George Clooney.
Colleziona altre tre nomination ai premi Oscar per i ruoli dell’agente CIA ne La guerra di Charlie Wilson, con Tom Hanks e Julia Roberts, del reverendo presunto pedofilo de Il dubbio, accanto a Meryl Streep e Amy Adams, e proprio l’anno scorso per il controverso ruolo di Lancaster Dodd in The Master, per il quale vince la Coppa Volpi alla Mostra di Venezia. Altri recenti personaggi da ricordare sono il burbero allenatore di baseball ne L’arte di vincere e quelli più “spensierati” del Conte in I love Radio Rock e di Jon ne La famiglia Savage. Altrettanto rilevante è stata la carriera teatrale di Philip Seymour Hoffman, anche da regista; al cinema l’unica pellicola che ha firmato in tale veste è Jack goes boating, dove interpreta la parte del protagonista Jack, un uomo timido e impacciato, sulla falsariga dei personaggi a lui tanto cari, che tenta di iniziare una relazione sentimentale con una donna altrettanto problematica.
Timidezza e sguardo basso, discreto e sfuggente, come si può vedere dal delicato e sincero discorso agli Oscar. Malinconia e talento. Trasformismo e naturalezza. Questo era Philip Seymour Hoffman. Ancora una volta debolezze e dipendenze hanno avuto la meglio sulla vita di un uomo che per ventidue anni era riuscito a distanziarsi da una schiavitù che l’aveva colto anche in giovane età e dalla quale si era subito allontanato, spaventato per la propria sorte. Non conosciamo i motivi per il quale Philip Seymour Hoffman era mestamente rientrato nel tunnel dell’eroina, ma sappiamo cosa ha lasciato la sua scomparsa: un vuoto difficilmente colmabile ma, per fortuna, anche rare perle di maestosa recitazione e di grande cinema che resteranno nei cuori di molti cinefili.
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