Quando qualcuno chiedeva a George Mallory perché voleva andare in cima all'Everest - cosa che provò a fare per ben tre volte prima di restarne vittima nel 1924 - lui rispondeva: «Perché è lì». Così, semplicemente. Una risposta all'apparenza quasi ingenua, ma perfetta per tracciare gli smisurati contorni di un gesto epico, come quello dell'esplorazione, della conquista, dello spingersi oltre i confini conosciuti, dell'arrivare dove nessuno è mai giunto prima anche a rischio della vita, la cui utilità è dunque - di fatto - tutta e solo culturale.
Perché andare sulla Luna? «Perché è lì». Perché conquistare il Polo Sud? «Perché è lì». Perché andare su Marte? «Perché è lì». Eppure, oggi, alle orecchie della maggioranza quel «Perché è lì» è una risposta che suona incomprensibile come la frase astrusa di una lingua dimenticata, in quanto fa parte di una grammatica concettuale ormai colonizzata, rimodellata, stravolta da nuovi paradigmi. Una società in cui la tecnologia ha abituato l'umanità a vedere svelata ogni cosa con lo sforzo di un clic, e che in questo modo ha smarrito il senso di ogni mitologia (e dunque di ogni immaginazione), trova insensato il gesto della conquista fine a se stessa, perché la conquista ha proprio a che vedere, prima di ogni altra cosa, con il mistero, la mitologia e l'immaginazione. E questa lacuna la si ritrova tanto più radicata nelle giovani generazioni, programmate negli ultimi vent'anni al principio assoluto dell'utilitarismo-a-tutti-i-costi. Insomma, tu sei lì che - magari - gli parli davvero di esplorazione di Marte e loro ti guardano con il punto interrogativo che gli oscilla piano sulla testa, finché la domanda a un certo punto te la fanno: «Ma a che cosa serve andare su Marte?»
E tu allora, certo, puoi provare a parlargli dell'importanza della ricerca della vita e del come solo un equipaggio - e non un robot - potrebbe riuscire a compierla, del fatto che in fin dei conti, pur con tutte le difficoltà del caso, Marte è l'unico pianeta che l'uomo potrebbe abitare, puoi provare anche a buttare lì come ultima carta (ma non ultima in ordine di importanza) il valore supremo della conoscenza. Ma alla fine puoi stare certo/a che non li avrai convinti, perché tutti questi discorsi alle loro orecchie avranno sempre e comunque più d'una sfumatura accessoria, aleatoria, opzionale. Perché lo sforzo sarebbe titanico e il rischio a esso proporzionato, a fronte di quale reale ritorno? La tua risposta dovrebbe essere, semplicemente: «Perché è lì». Ma se non sono recepite le altre, figuriamoci questa.
Quello che più dovrebbe angosciare, però, è quello che questa perdita implica, perché di autentica perdita si tratta. Perché perdere il senso della conquista e dell'esplorazione, è perdere il senso del mistero, nell'illusione che non ce ne sia più neanche uno (o, ancora peggio, che non ci sia più alcun bisogno di svelare quello che ancora c'è, perché in fondo non è poi così importante), è perdere il senso dell'evoluzione e dell'elevazione umana come nell'assurda presunzione di avere già raggiunto il massimo (o, ancora peggio, che non ci sia più alcun bisogno di spingerci oltre, perché in fondo non è poi così importante), e dunque è perdere il senso del futuro e della nostra speranza in esso.
Ma è anche (soprattutto?) perdere il senso del mandala, ovvero dell'impegno alla realizzazione dell'impresa, ambiziosa, meravigliosa, strabiliante ancorché effimera, in quanto non portatrice di alcun ritorno materiale, perché oggi conta ormai più la meta che il percorso, più la retribuzione finale che l'esperienza, più lo sponsor che il gesto. Come perdere il senso dell'importanza della cultura, anzi quello della vita stesso.
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