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Elementi di esogeologia dei pianeti nani

Creato il 03 febbraio 2016 da Aliveuniverseimages @aliveuniverseim

Le scoperte fatte a partire dagli anni novanta legate agli oggetti della fascia di Kuiper e sopratutto tra il 2003 e il 2005 quando si rilevarono i planetoidi Sedna ed Eris, portarono nell'agosto 2006, la XXVI Assemblea Generale dell'Unione Astronomica Internazionale alla riqualificazione di Plutone. Questo venne ridimensionato come "Pianeta nano", insieme ai suddetti corpi celesti, in virtù delle analogie che li accomunano e che furono fissate nel corso della sessione plenaria della III Divisione della UAI ( Definition of a Planet in the Solar System: Resolutions 5 and 6, in IAU; General Assembly, International Astronomical Union, 24 agosto 2006.)

Tali caratteristiche identificano come " Pianeta nano" un corpo celeste che:

  • è in orbita intorno al Sole;
  • ha una massa sufficiente affinché la sua gravità possa vincere le forze di corpo rigido, cosicché assume una forma di equilibrio idrostatico (quasi sferica);
  • non ha ripulito le vicinanze intorno alla sua orbita;
  • non è un satellite.

Ad oggi, quindi, sono considerati pianeti nani:

L'importanza della scoperta e dello studio di questi corpi non è solo nel ridimensionamento del sistema solare, ma anche nella rivalutazione della sua storia, in particolare dei pianeti interni e quindi della Terra.

I pianeti nani, in effetti, risultano essere costituiti da roccia al nucleo e da azoto, anidride carbonica, acqua ed idrocarburi prevalentemente solidi.

Questa composizione ha enormi implicazioni nella comprensione dei meccanismi che portarono all'evoluzione del pianeti di tipo terrestre, dalle prime aggregazioni dei planetesimi, all'"Intenso bombardamento tardivo", alla successiva graduale maturazione. Prendiamo l'interessante caso di Cerere: poiché esso non sembra aver subito l'intenso bombardamento tardivo, si presenta oggi come un "fossile planetario", cioè un proto-pianeta relitto.

Nel corso del 2015 le immagini provenienti dalla sonda Dawn mostrarono la presenza di strane macchie ad alto albedo dentro taluni crateri. Solo ultimamente Andreas Nathues del Max Planck Institute for Solar System Research di Gottinga (Germania) ne ha spiegato l'origine. Sarebbero dovute alla presenza di solfato di magnesio (hexahydrite) i cui depositi si sarebbero accumulati in seguito alla sublimazione dell'acqua superficiale nella quale erano disciolti. Si sospetta in effetti che ghiaccio d'acqua possa ancora essere presente nei primi strati del sottosuolo e del mantello, al disotto del quale giace il nucleo roccioso.

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Cerere, NASA/JPL-Caltech/UCLA/MPS/DLR/IDA

Tutte queste scoperte potrebbero aiutare gli scienziati a gettare maggior luce su quando e come la Terra acquisì l'idrosfera, integrando magari i risultati delle analisi isotopiche effettuate dal Prof. John Valley dell'Università del Wisconsin-Madison , basate sul rapporto tra O 16/O 18 e condotte su zirconi di 4,4 miliardi di anni fa. Questi minerali sono a loro volta contenuti, quali residui di erosione, in rocce sedimentarie australiane, databili tra 3,6-3,9 miliardi di anni. L'alto valore del rapporto isotopico dimostra la presenza di acqua liquida durante il consolidamento dei primi corpi litologici ed in effetti, la composizione stessa dei planetoidi confermerebbe questo dato, se rapportato alla Terra primordiale. Sostanzialmente potremmo immaginare il protopianeta Terra contenente acqua sin dal principio; quindi, non il planetoide arido ed infuocato che acquisì l'idrosfera solo nel corso del processo di accrescimento, come postulato dalla teoria tradizionale. Inoltre l'enorme quantitativo di materia organica ed acqua presenti in questi corpi potrebbe altresì spiegare la celerità della prolificazione della vita terrestre, ad oggi supposta prudentemente, in ragione di questi studi, addirittura intorno a 4,4 miliardi di anni fa.

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Immagine microscopica a falsi colori di uno zircone archeano. Credit: John Valley.

Un aspetto molto interessante nell'osservazione di questi oggetti è rappresentato dal criovulcanismo, alimentato probabilmente dal calore interno, causato dal decadimento di elementi radioattivi, presenti nel nucleo roccioso . E' sostanzialmente una "geologia" totalmente avulsa, aliena dal ciclo delle rocce così come conosciamo sulla Terra e che contraddistingue i corpi celesti presenti delle regioni più remote del sistema solare. Infatti, mentre in superficie le bassissime temperature rendono l'acqua, l'azoto, l'anidride carbonica e gli idrocarburi allo stato solido, più in profondità, il gradiente termico causerebbe lo scioglimento dei ghiacci profondi con relative eruzioni di materiali liquidi e gassosi, frammisti a detriti e polveri. Un caso emblematico sembra essere quello rappresentato da Wright Mons e da Piccard Mons, entrambi su Plutone e probabilmente criovulcani di dimensioni colossali. La mole di questi due corpi geologici suggerisce, peraltro, una lunga attività, forse non solo nel passato, ma anche nel presente. Tali fenomenologie sono già state riscontrate su alcune Lune di Saturno e Nettuno, ma in quel caso l'energia termica necessaria ad alimentarle sarebbe generata dalle immense forze mareali dovute alla gravità dei giganti gassosi, intorno ai quali i suddetti satelliti rivoluzionano.

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Elaborazione in falsi colori di Plutone e Caronte, posti in scala. Credit NASA

La presenza di un gradiente termico endogeno plutoniano sembra trovare, inoltre, conferma nelle depressioni lineari con andamento ad X rilevate ultimamente dalla sonda NASA New Horizons e che dovrebbero essere dovute alla fratturazione e successiva risaldatura del manto glaciale, quale risultato della dinamica di celle convettive di azoto liquido, al di sotto della distesa detta Sputnik Planum.

L'azoto sarebbe poi il costituente principale della tenue atmosfera del pianeta, generata dalla sublimazione dei ghiacci superficiali esposti alla radiazione solare e in minor misura dal criovulcanismo.

Ma le curiosità di Plutone non finiscono qui, infatti se lo osserviamo nel suo complesso, vediamo che è contornato da 5 satelliti di cui il più grande è Caronte. Tuttavia, poiché il rapporto di massa tra questa luna e il pianeta è pari appena ad 1/9 e poiché il rispettivo centro di gravità è esterno al volume di entrambi, si potrebbe considerarli parte di un sistema planetario binario. Inoltre le differenze composizionali tra i due corpi celesti ne farebbero supporre un'origine non comune, piuttosto parti di due protopianeti distinti ed entrati in collisione agli albori del sistema solare. L'impatto verificatosi tuttavia non fu tale da provocarne la disintegrazione, ma diede inizio all'interazione orbitale dei due oggetti.

Caronte è altresì caratterizzato da una superficie piuttosto varia, con pianure ghiacciate costellate di crateri, canali e peculiarità cromatiche che ne tradiscono una geologia piuttosto complessa.

La struttura però di gran lunga più interessante è il sistema equatoriale di canyons, la cui morfologia suggerisce un'attività geodinamica sulla quale gli scienziati fanno solo supposizioni. L'emisfero sud risulta topograficamente meno elevato rispetto alle pianure a nord e si presume possa essere dovuto al raffreddamento di un oceano sotterraneo d'acqua ed ammoniaca. Durante il processo di consolidamento, l'aumento di volume generato avrebbe provocato questa zona di discontinuità equatoriale, dovuta a famiglie ad andamento parallelo di fratture e faglie. Il fatto poi che la distesa meridionale sia caratterizzata da crateri di diametro relativamente piccolo significa che possa essere anche più giovane rispetto alla regione settentrionale, nella quale, tra l'altro la sonda New Horizons ha documentato la presenza di un'enorme macchia rossa. Quest'ultima risulta quasi totalmente contenuta all'interno di un enorme cratere d'impatto e presenta un colore decisamente tipico che, secondo gli scienziati, tradisce la presenza di toline diffuse sulla superficie.

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Caronte. Credit. NASA /Jhuapl/Swri

Dati altresì interessanti si stanno raccogliendo dallo studio degli oggetti transnettuniani e di taluni asteroidi che non hanno le peculiarità per essere considerati pianeti nani, ma che posseggono caratteristiche composizionali e strutturali simili ad essi o ai pianeti di tipo terrrestre.

E' il caso dell'asteroide Vesta, analizzato a lungo dalla sonda NASA Dawn, la cui geologia ne rivelerebbe una zonazione interna, dovuta alla differenziazione planetaria ed innumerevoli eventi collisionali, i più violenti dei quali si verificarono al polo sud. Qui infatti giace il cratere più imponente, nominato Rheasilva.

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Emisfero sud di Vesta; crateri di Rheasilvia e Veneneia. Credit: NASA/JPL-Caltech/UCLA/MPS/DLR/IDA

Questo presenta un diametro di quasi 500 km e fu causato da un corpo collidente di grandi dimensioni, capace di asportare almeno il 1 % del volume, ma non curiosamente di smembrare l'asteroide. Inoltre, vista la posizione d'impatto, l'enorme energia rilasciata si scaricò come onda deformazionale, provocando un' interessante serie di fosse concentriche che corrono lungo la fascia equatoriale. Probabilmente queste discontinuità sono ascrivibili ad un immenso sistema di faglie distensive dette comunemente, in geologia, "Graben". Le suddette strutture sono tutt'ora oggetto di indagini ed approfondimenti utili alla miglior comprensione del meccanismo che le ha generate.

A tal proposito, nel 2014 è stato redatto uno studio da parte di T.J. Bowling , B.C. Johnson , H.J. Melosh della Purdue University dell' Indiana, intitolato " Formation of equatorial graben following the Rheasilvia impact on asteroid 4 Vesta".

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Il modello descritto mette in relazione Rheasilvia con i graben equatoriali, tenendo conto di deformazioni di taglio, sviluppatesi in un corpo celeste sostanzialmente roccioso, ma poroso e diffusamente danneggiato nella sua stessa struttura dai numerosi impatti meteoritici, verificatesi nei milioni di anni. Le conclusioni di questo elaborato, tuttavia dovranno essere suffragate da dati più precisi sulla reale struttura del sottosuolo dell'asteroide.

Alla luce di quanto scritto fino ad ora si evince che le sonde Dawn e New Horizon rappresentano l'inizio di una nuova era nell'esplorazione spaziale e le scoperte da esse effettuate dovranno essere obbligatoriamente integrate da prossime missioni ad hoc, per cercare di svelare tutti gli interrogativi generati dall'enorme mole di dati in via di acquisizione.

I processi geologici operanti in questi corpi celesti, inoltre, rappresentano un capitolo nell'ambito delle scienze planetarie, del tutto nuovo e di fatto semisconosciuto.

L'esplorazione del sistema solare esterno è appena agli albori e riserverà ancora molte sorprese, costringendo gli scienziati a riscrivere i libri di astronomia.


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