Elena Corsino, NATURE TERRESTRI, puntoacapo 2013
Sovrastato da tre ordini di bellezza, il vedente
non scorge altro che il mondo affilato dalla luce:
i corpi, gli oggetti, la sintassi delle ore.
Prende e ripone, così che le cose stiano in prospettiva,
con vaste superfici immutate, quasi che tutto
fosse un giorno e non esistesse furore intorno.
Solo le ombre scaraventano forme primordiali
negli interstizi dello spazio vitale – a tingere di nero
il sangue
della vita scombaciata.
p.41
L’essere a frammenti, dunque, è indagato nel rapporto architettonico tra ombra naturale e ombra portata, cioè nel passaggio dal piano della superficie bidimensionale a quello di uno spazio più complesso dove l’ombra, appunto, direi l’anima, scombina le carte della sensorialità semplice, a tu per tu, introducendo l’elemento drammatico di un complesso percettivo mediato dalla ratio. L’ombra riduce le cose, infine, alla loro sostanza di non colore prossimo alla fine, “al confine del vuoto” cercando “l’esatto punto di fuga”.
Sembrerebbe, dunque, che le cose scompaiano non solo fisicamente dalla traiettoria della luce che le rende visibili, mostrate al tempo dentro l’esperienza dell’essere.
Si può, dunque, pur vivendo, rimanere invisibili perchè non illuminati. Si può continuare ad essere pur rimanendo invisibili, “vibrazione residuale / dell’infinito”, p. 46. Così come lo stesso corpo, esito, forse di un contendere tra il giorno e la notte, ha un diverso modo di percepire l’esistente, “la forma mutevoli degli esseri”, p. 47.
Poesia altamente riflessiva, questa, ancorata alla parola come ricerca incessante, bipolare, se si vuole, ma non scompaginata, in quanto “Nessuna parola direbbe il caos. Lo fuggirebbe”, p. 11. L’indicibile esiste, ed è nella parola e nella vita. Se non va nominato, perché, come sappiamo, nessuna cosa indicibile è nominabile, va percepito e stanato come l’acqua contenuta nel fuoco, l’ossigeno negli spazi siderali. Per capire che, in fondo, la cifra più naturale di questa sete d’ infinito, cioè di sottrazione al male di infinito, è il dolore, lo scompaginamento nelle pieghe stesse della propria insistenza ad essere:
Gridi di rondini. Va in fuoco la mia casa: spargo
acqua sui legni per dissetarmi.
L’arsura dell’anima non è in un cerchio della
commedia, – ma qui dove la lingua batte arida
sul dolore. Qui dove il vento di primavera non
arriva e sola una donna folle pone gerani sul
balcone. Dove le unghie delle zolle sono afflato
d’amore e l’escavatrice scava cerchi – uno per
ognuno dove giacere distesi
sulla selvaggia terra.
p. 32
*
la struggente luce del giorno,
tra le foglie nere dell’ombra
mi trafigge e mi schiva,
resto come una cosa da nulla,
parola infinita
echeggiante di voci, nascente
p. 33
Sebastiano Aglieco
Schabisc Hall, agosto 2013