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Elephant: l’urlo dei figli dimenticati

Creato il 24 agosto 2014 da Nicola933
di Mirko Ranieri Elephant: l’urlo dei figli dimenticati - 24 agosto 2014

Titolo: Elephant

Genere: drammatico

Elephant: l’urlo dei figli dimenticati

Regia: Gus Van Sant

Cast: John Robinson, Alex Frost, Elias McConnell, Eric Deulen, Nathan Tyson, Carrie Finklea, Kristen Hicks, Alicia Miles, Jordan Taylor, Nicole George, Brittany Mountain, Benny Dixon, Matt Malloy, Timothy Bottoms.

Durata: 81 min.

Anno: 2003

Di: Mirko Ranieri

“Quante volte sono venuto da te a dirti che i miei compagni mi prendevano in giro? Almeno sei volte … e tu che mi hai risposto? Che non era niente vero, che me lo mettevo in testa io, che i miei compagni sono persone più serie di me! Hai dimenticato tutto? … ma bravo … vuoi negare eh? Certo che l’hai fatto e solo per questo dovrei ucciderti immediatamente … ma forse ti lascio vivere, sai? Perché così quando qualche altro compagno viene da te, con dei problemi, perché gli altri lo prendono in giro, tu li stai a sentire “.

Sono queste le parole che uno studente americano rivolge al suo preside, mentre, in mimetica militare e con un fucile tra le mani, lo guarda strisciare pietoso sul pavimento del corridoio, accanto agli armadietti. Eric non ha un attimo di esitazione quando uccide compagni ed insegnanti, come il piano prevede. Non lo sprofonda l’angoscia, mentre osserva la morte che ha seminato. Nessuna espressione sul viso spento, mentre mastica il suo chewin gum. Nessuna vertigine gli impedisce di uccidere ancora. Eric non prova più niente. Solo rabbia. Rabbia covata nei meandri della solitudine, rabbia di chi non ha visto tendersi nemmeno una mano, rabbia di un adolescente complicato, che nasconde l’omosessualità come fosse un fardello, emarginato, battuto, umiliato, schiaffeggiato da un mondo vile e scostante, ignorato da un sistema scolastico conformista e ruffiano, che si gloria delle sue fatiscenti tradizioni, che offre uno standard e niente di più: la squadra di football, i cori delle cheerleaders, la bacheca dei trofei, il ballo di fine anno, i gruppi di dibattito, l’impegno sociale, la beneficenza, la banda musicale, l’inno nazionale, il sogno americano. Eric ed Alex sono le vittime di tutto questo. Adolescenti incompresi e condannati, relegati nella miseria del colore grigio, dimenticati da un mondo che non esita, del resto, a far loro del male. Nessuno è disposto ad ascoltarli. Tutti sono pronti a ferirli. La disperazione a poco a poco diventa fredda e scostata follia omicida. Eric ed Alex decidono di morire, incapaci di cambiare la propria condizione. Ma portano dentro l’odio feroce per il mondo che li ha cresciuti; ed è insieme una vendetta e un desiderio di trascinarsi dietro tutto quel male ( “ Mai ho visto un giorno così brutto e così bello “, dice Alex ). Sono la storia tragica che si poteva evitare, col senno del poi. Sono l’elefante nella stanza, una verità che grida attenzione ma che viene ignorata costantemente, fino alle estreme conseguenze.

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Seguendo un canovaccio a lui molto caro, Gus Van Sant si rende ancora una volta fedele ritrattista della dimensione adolescenziale americana, che riesce a descrivere in tutta la sua complessità, analizzandone con cura gli elementi ricorrenti e gli aspetti più oscuri. E lo fa con una pellicola sui generis, a metà strada tra il racconto ed il documentario, che gli vale la Palma d’Oro ed il Premio per la miglior regia alla 56esima edizione del Festival di Cannes. “ Elephant “ rappresenta un intreccio di esperienze adolescenziali, colte nello ambiente che più le accomuna: la scuola. Il racconto si sviluppa nell’ arco di una sola giornata ma il tessuto narrativo è frammentato, nel continuo passaggio da un personaggio all’ altro, che viene descritto con estrema cura nella quotidianità dei suoi gesti e nei tratti dominanti della sua personalità. Il primo a fare la sua comparsa è John, ragazzo alternativo e trasandato quanto basta, maglietta gialla e stemma di toro nero, spesso costretto a sostituirsi al padre alcolista nella vita di tutti i giorni, rinunciando così alla spensieratezza dei suoi anni. Nei momenti bui si rifugia a piangere in un’aula vuota. Sarà lui ad avvertire molti studenti della tragedia imminente. Elias è invece il ragazzo con la passione per la fotografia. E’ un adolescente che ha trovato la sua dimensione

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ed è in pace col resto del mondo. Sarà Elias a scattare la foto del suo carnefice. Con Nathan il regista ci conduce per la prima volta all’interno della scuola. E’ l’immagine del ragazzo sicuro di sé, estroverso, atletico, fiero degli sguardi che riesce ad attirare. Passa buona parte del tempo con la ragazza Carrie, discutendo di segreti problemi di coppia. Con loro due si chiude la pellicola, mentre Alex ne decide la sorte nella cella frigorifera della mensa. Poi c’è Michelle, ragazza molto introversa, quello che si dice un topo di biblioteca. Ha forti problemi relazionali e non accetta le forme del suo corpo. La sua risposta è il silenzio, tanto da non reagire alle cattiverie che si sente rivolgere. C’è posto anche per le vittime della moda, Brittany, Jordan e Nicole. Sono ragazze maliziose e unite da un legame morboso, ossessionate dalla forma fisica e dall’apparenza, schiave compiacenti della bulimia. Infine c’è Alex. Un ragazzo disadattato e silenzioso, con un’omosessualità latente, vessato e umiliato sotto al naso dei suoi insegnanti. Trova l’unico conforto in Eric, che bacia poco prima di compiere la strage. Sembra muoversi in preda di una doppia personalità: da un lato, l’adolescente impacciato ed incompreso, che si lascia trasportare dalle note di Beethoven, dall’ altro, la mente squilibrata e vendicativa che mette in scena l’inferno in una giornata come tante.

Questo micro – universo viene descritto da Van Sant quasi con lo stesso realismo di un documentario, indugiando molto sulla ripetizione dei gesti e sulle abitudini dei personaggi, valorizzando l’elemento descrittivo attraverso inquadrature fisse e movimenti al rallenty. Sempre allo scopo di accentuare il realismo sem  bra diretta la scelta di non utilizzare effetti speciali e di avvalersi soltanto delle luci naturali. Inoltre Van Sant lascia gli attori (quasi nessun professionista) liberi di improvvisare ed arricchire le scene. Ne deriva una aderenza alla realtà molto significativa, priva di sofisticazioni da copione o scene memorabili, che ci proietta nel mondo duro e crudo di questi adolescenti, tra nonsensi e gergo comune.

Tra i temi affrontati dal regista statunitense compare quello dell’omosessualità e del posto che ricopre nella coscienza comune. La critica scagliata da Van Sant (dichiaratamente omosessuale) è nascosta ma brutale. Si coglie tutta nel dibattito sui diritti delle minoranze sessuali, cui Acadia partecipa. Il gruppo non fa altro che ridere imbarazzato, adducendo argomentazioni grottesche e fuori luogo, analizzando il problema con una superficialità estrema. Finisce quindi col diventare un fenomeno di aggregazione di persone non del tutto affezionate alla causa, che si mettono d’accordo per una pizza e dimenticano il motivo reale del loro incontro.

A tutto questo si unisce la critica generalizzata verso un sistema sociale che educa gli adolescenti attraverso videogiochi violenti ed offre loro infiniti mondi possibili sui siti internet, inclusa l’opportunità di farsi recapitare un’arma per posta. La critica ad un sistema che dà tutto ma non si cura dei mostri che crea. Un sistema che poi non ha occhi per guardare i suoi elefanti.


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