Martedì 7 giugno sono stati ufficializzati i risultati delle elezioni tenutesi tra il 26 e il 28 maggio scorsi. Nella road-map di transizione delineata dal governo ad interim salito al potere il 3 luglio 2013 l’elezione del presidente rappresenta la seconda tappa; la successiva ed ultima consisterà nelle elezioni parlamentari, probabilmente a fine estate. Al-Sisi, dichiarato vincitore, ha tenuto il suo primo discorso da presidente per ringraziare gli egiziani e il suo rivale, la cui presenza ha reso l’elezione “competitiva”. Le virgolette sono necessarie dal momento che Sabahi ha ottenuto l’impossibile: è riuscito ad arrivare terzo in una corsa a due, come ha titolato l’articolo di Bel Trew pubblicato dal Middle East Institute. Il candidato di sinistra ha ottenuto circa 757 mila voti contro gli oltre 23 milioni di Al-Sisi e contro un milione di schede nulle. Queste ultime sono state superiori rispetto a tutte le elezioni tenutesi in Egitto dopo la rivoluzione del 2011, comprese le pur notevoli 834.252 (3%) schede nulle espresse su sollecitazione di una vera e propria campagna di boicotaggio nelle elezioni del 2012, quando si fronteggiavano l’ex Primo Ministro di Mubarak, Ahmed Shafik e Mohamed Morsi. Le immagini delle schede invalidate, che hanno preso a circolare su tutti i social media, spaziano da quelle che invocano la liberazione degli attivisti politici imprigionati a quelle che esprimono un’ironica preferenza per le più varie celebrità. Escludendo quelle plausibilmente frutto di errori involontari, nonostante le autorità avessero allentato le regole elettorali, permettendo agli elettori di disegnare sulla scheda senza invalidarla purchè venisse almeno barrata una casella, ciò che risulta è un sentimento diffuso di pubblica irriverenza nascosto fino al momento dello spoglio da un crescendo nazionalista che ha pervaso i giorni della campagna elettorale.
I partiti che hanno deciso di sostenere la candidatura di Sabahi hanno subito una batosta non da poco, dimostrando la loro lontananza dagli umori della gente. Molti, d’altro canto, avevano messo in discussione la sua candidatura, che conferiva implicita legittimità a delle elezioni considerate una farsa sia dagli islamisti che dai dissidenti laici. Ci si chiedeva come un candidato autodefinitosi rivoluzionario potesse scegliere di partecipare alle elezioni da cui il più grande gruppo politico egiziano era stato bandito e che si verificavano dopo 10 mesi di violenta repressione contro ogni forma di dissenso. Sabahi, dal canto suo, riteneva che candidarsi fosse l’unico modo per garantire lo svolgimento di un processo democratico in Egitto o almeno per porne le basi. Ahmed el-Enany, membro dell’ufficio politico di Sabahi, ha affermato: “Possiamo vincere o perdere, ma non possiamo ritirarci dalle elezioni. Ritirarsi è pericoloso per noi, per il paese e per il popolo perchè darebbe alla Fratellanza la possibilità di avvalorare la loro posizione”.
Il piano di Sabahi ora è cercare di rimettersi in corsa per le prossime elezioni parlamentari, ma il danno alla sua immagine, dovuto alla partecipazione alle presidenziali, potrebbe produrre effetti anche nella prossima tornata elettorale. Alcuni, infatti, lo considerano ora un ingranaggio della solita macchina corrotta che ha portato all’Egitto l’ennesimo militare come presidente.
In una dichiarazione il NASL (l’Alleanza Nazionale di sostegno alla legittimità), che è quanto rimane della Fratellanza, ha richiesto ai militari di fare un passo indietro e permettere, così, agli egiziani di governare. Il basso livello di affluenza, inoltre, ha evidenziato secondo l’Alleanza che gli egiziani rigettano quello che è definito dagli islamisti un colpo di stato militare. Il NASL, perciò, chiede agli egiziani di protestare in tutti i governatorati contro i risultati delle elezioni e contro la destituzione del legittimo presidente Morsi.
Neanche il vincitore può considerarsi pienamente soddisfatto dal voto, dal quale puntava di ottenere, infatti, una legittimazione indiscussa e indiscutibile, basata su un’affluenza totale di almeno 40 milioni di votanti. Nei primi due giorni il governo ad interim era così preoccupato dalla bassa affluenza, che, per facilitare il voto, ha proclamato il secondo giorno di elezioni festa nazionale; ha giurato di non multare i cittadini trovati senza biglietto sui mezzi pubblici e alla fine ha esteso le elezioni per un terzo giorno. Tutto ciò per evitare che la credibilità del processo elettorale venisse minata e con essa l’inevitabile vittoria di Al-Sisi.
Nonostante ciò, solo 25 milioni di elettori si sono recati alle urne, ovvero il 47% circa, su un totale di 54 milioni di elettori registrati. I dati dell’affluenza forniti dalla Commissione delle Elezioni Presidenziali (PEC), già inferiori rispetto al 52% delle elezioni del 2012 vinte da Morsi, non possono, però, essere confrontati e verificati con altri. Nelle elezioni precedenti i controlli venivano effettuati principalmente incrociando i dati ufficiali con quelli di altri gruppi politici, come la Fratellanza Musulmana o attraverso il monitoraggio effettuato dai rappresentanti dei concorrenti. Ora la Fratellanza è fuori dai giochi e i rappresentanti della campagna di Sabahi hanno subito attacchi ed arresti da parte delle forze di sicurezza, finchè il candidato nasserista non ha deciso di ritirarli dai seggi la notte del 27 maggio. Come risultato, il dato dell’affluenza finale non può essere verificato e confermato dalle missioni elettorali presenti in loco e sono piovute accuse da più parti sulla sua credibilità e imparzialità. Il Presidente di Democracy International (DI), una delle sei missioni di osservatori elettorali stranieri accettata dal Cairo, ha dichiarato: “Non abbiamo i mezzi per valutare l’affluenza alle urne”. Nel frattempo, sospetti di brogli hanno iniziato a circolare dopo la denuncia di un funzionario presente in uno dei seggi, secondo il quale i voti scrutinati sarebbero stati superiori a quelli dei votanti registrati. Nel complesso “il contesto repressivo egiziano ha reso elezioni genuinamente democratiche impossibili”, ha dichiarato Eric Bjornlund, Presidente di Democracy International. La legge sulle proteste ha avuto effetti parimenti negativi sulla libertà di associazione e di espressione. Infine, l’estensione all’ultimo minuto della votazione per 24 ore è stata ritenuta ingiustificata, poiché nei due giorni precedenti non si erano verificati ostacoli al suo corretto svolgimento.
Dello stesso parere la missione elettorale dell’Unione Europea, che ha pubblicato il suo rapporto provvisorio, nel quale si afferma che l’estensione delle elezioni per un terzo giorno non è stata contraria alla legge, ma ha portato “incertezza inutile” nel procedimento. Sia Sabahi che Al-Sisi hanno inviato un reclamo formale contro la decisione, entrambi respinti dalla Commissione elettorale, così come il ricorso avanzato da Sabahi al PEC sulla dubbia credibilità dei risultati finali e sulla presenza di irregolarità durante le votazioni. Il rapporto UE ha giudicato il processo elettorale in sé regolare, ma il contesto nel quale esso è avvenuto viene descritto come ampiamente anti-democratico. Per queste ragioni, il movimento dei giovani del 6 aprile, banditi qualche mese dopo i Fratelli Musulmani, aveva invitato l’UE a non inviare gli osservatori per non legittimare delle elezioni ritenute una farsa. A sostegno di questa posizione sta l’effettiva limitazione della libertà di espressione e l’esclusione di diversi attori dal processo politico da parte delle autorità. Le condanne a morte di centinaia di presunti affiliati alla Fratellanza Musulmana – mentre Mubarak se la cavava con 3 anni di carcere per appropriazione indebita – gli arresti di attivisti politici, l’uso eccessivo della violenza da parte delle forze di sicurezza e l’arresto di numerosi giornalisti hanno creato un clima diffuso di paura. Inoltre, non si può sostenere che i candidati abbiano giocato su un piano paritario. Infati, i finanziamenti alle campagne non sono stati regolamentati e i media hanno dedicato il doppio del tempo ad Al-Sisi rispetto a quello riservato al suo rivale Sabahi. Poco prima e durante le elezioni ha preso piede una vera e propria isteria mediatica in cui i presentatori equiparavano l’astensione dal voto al tradimento e stigmatizzavano chiunque differisse per opinione dalla narrazione propagandata dalle autorità governative. Questo ha impedito lo sviluppo di un qualsiasi dibattito.
Il nuovo governo Al-Sisi
“Finora Al-Sisi ha solo fatto l’anti-Morsi. Adesso il nuovo regime dovrà iniziare a lavorare”, ha affermato Simon Williams, economista capo di HSBC Middle East. Gli elementi di forza su cui potrà contare il neo-presidente sono, in primo luogo, il sostegno delle forze armate e degli interessi costituiti e, in secondo luogo, l’enorme popolarità dovuta alla credenza diffusa che l’ex Generale sia l’unico, al momento, in grado di riportare la stabilità dopo anni di sconvolgimenti. Tuttavia, l’affluenza al voto più bassa di quanto Al-Sisi sperasse, potrebbe non garantire un mandato popolare abbastanza ampio per le decisioni difficili che il governo dovrà prendere su tre piani: sicurezza, stabilità e sviluppo economico. Non c’è dubbio che stabilità e sicurezza siano condizioni necessarie allo sviluppo, ma esse non saranno sufficienti.
Il messaggio di Al-Sisi è stato chiaro fin dall’inizio: l’esercito, il governo e il popolo sono una cosa sola e la lotta contro ogni opposizione è una lotta comune, che risponde alle esigenze della nazione. Sembra che il neo-presidente abbia preso alla lettera il pensiero di Charles de Gaulle, che sosteneva: “Per diventare il padrone, il politico deve atteggiarsi da servo”. Per questo Al-Sisi non perde occasione per mostrarsi vicino al suo popolo e ai problemi che affliggono la maggioranza degli egiziani, soprattutto nel caso degli effetti negativi dell’estremismo islamico. Nella famosa intervista tv pre-elettorale, per esempio, Al-Sisi aveva denunciato i due attentati alla sua vita subiti da parte dei terroristi islamici. Stando alle dichiarazioni pre-elettorali, il nuovo regime spenderà presumibilmente molte energie nella lotta contro gli islamisti, che non si lasceranno reprimere con facilità, abituati ad agire in condizioni di clandestinità. Già troppe volte, infatti, l’islamismo politico è stato dato per morto, ritrovando poi in contesti diversi modo per riattualizzarsi.
Più morbida, invece, è sembrata la posizione di Amr Moussa, ex Ministro degli Esteri e attuale Consigliere della campagna presidenziale di Al-Sisi, che in una dichiarazione alla stampa ha affermato: “La porta è aperta per chiunque voglia partecipare al processo politico. Se la Fratellanza Musulmana desidera farlo, deve riconoscere pubblicamente la costituzione, abbandonare la violenza e riconoscere la legittimità delle nuove istituzioni”. La nuova costituzione, secondo Moussa, non isolerebbe nessuno, diversamente da quella islamista del 2012. In risposta, Ahmed Abdul-Aziz, Consigliere di Morsi, ha spento le speranze di chi credeva in una riconciliazione, impossibile con chi ha portato a compimento un colpo di stato militare e non una rivoluzione come sostenuto dalla leadership attuale. La riconciliazione potrà avvenire solo quando sarà fatta giustizia per tutti i sostenitori di Morsi o presunti tali uccisi dalle forze di sicurezza a partire dall’estate del 2013, come ha affermato da Londra Mohammed Sudan, Segretario del partito Libertà e Giustizia. Inoltre, la decisione spetterebbe in quel caso solo al legittimo presidente Morsi ed è con lui, quindi, che il governo dovrà dialogare se è realmente interessato alla riconciliazione.
Per quanto riguarda il piano economico, invece, Al-Sisi e il suo entourage riconoscono la necessità di procedere con il varo di misure di austerità e hanno già avvisato gli egiziani che dovranno stringere la cinghia per almeno due anni, per permettere di portare il deficit all’8,5% del PIL e il debito pubblico al 74,5% entro il 2017-2018.
L’economia egiziana è peggiorata significativamente negli ultimi 3 anni, con la crescita ferma al 2% annuo, l’inflazione in doppia cifra, la disoccupazione a più del 13%, il deficit al 14% del PIL e il debito pubblico a più del 90% del PIL. Ancora peggio le riserve di valuta estera, che sono scese a soli 18 miliardi di dollari dai 35 miliardi del 2010. Non sono state annunciate ancora misure specifiche per raggiungere tali ambiziosi traguardi, ma quel che è certo è che non si potrà prescindere dalla riforma dei sussidi, finora rimandata. Uno dei test più difficili riguarderà, in particolare, i sussidi energetici, che ingoiano miliardi di dollari statali ogni anno. I sussidi sono sempre stati alla base del contratto sociale tra governanti e governati e nel budget del 2011-2012 rappresentavano il 72% del totale. Finora sono stati intrapresi solo aggiustamenti limitati, ma nessun governo ha mai lanciato un programma serio di riforma, nonostante il sistema avesse fallito anche nel suo obiettivo ultimo e cioè favorire le classi più povere promuovendo la giustizia sociale. L’80% della popolazione, infatti, beneficia solo del 20% dei sussidi, mentre il 20% beneficia del restante 80. Gli imprenditori hanno sollecitato Al-Sisi ad alzare i prezzi del settore energetico, anche se questo potrebbe portare alle proteste popolari. Un leggero aumento del prezzo del gas naturale si è già verificato, ma non sarà sufficiente a migliorare la situazione.
È probabile che presto l’Egitto si affiderà anche ai prestiti del Fondo Monetario Internazionale, finora evitati per due ragioni principali. In primo luogo, grazie all’aiuto ingente dei paesi alleati del Golfo non vi era una necessità impellente di nuovi prestiti. Inoltre, dopo la rivoluzione del 2011, nessun governo è stato nelle condizioni di lanciare le massicce riforme economiche che un prestito del FMI avrebbe comportato. Il governo di transizione guidato dal Consiglio Supremo delle Forze Armate dopo la cacciata di Mubarak rimandò queste decisioni ad un governo eletto. Il governo di Morsi, invece, non riuscì a vincere l’opposizione a molte delle riforme ecomiche da varare, tra cui l’aumento delle tasse. Infine, il governo ad interim insediatosi dopo la destituzione di Morsi il 3 luglio 2013 rimandò la decisione ai vincitori delle successive elezioni. Ora potrebbero esserci le condizioni necessarie. Nel frattempo, le iniezioni di capitali dal Golfo serviranno a tamponare le falle del sistema egiziano.
Contesto regionale e internazionale
In campo internazionale l’intesa dell’Egitto con il fronte guidato da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti sta prendendo una forma sempre più strutturata. Gli Emirati hanno salutato l’elezione dell’ex Generale come un segno di “nuova speranza” per l’Egitto, mentre il re saudita Abdullah ha commentato l’elezione di Al-Sisi come “una vittoria storica”. Il monarca ha, poi, annunciato la convocazione di una conferenza di paesi donatori per aiutare l’Egitto a risollevarsi economicamente. Insieme agli Emirati, l’Arabia Saudita aveva già promesso all’Egitto un pacchetto di aiuti di 20 miliardi di dollari, come annunciato da un funzionario del governo al giornale Al-Masry Al-Youm. Il pacchetto comprenderà depositi nella Banca centrale per sostenere la sterlina egiziana, in drastico calo rispetto al dollaro; prestiti a basso tasso di interesse; investimenti in progetti idrici, sanitari e scolastici oltre che un’abbondante fornitura di prodotti petroliferi. Non a caso, il primo viaggio all’estero di Sisi avrà come destinazione proprio Riyad, in segno di gratitudine verso la dinastia saudita.
I governi occidentali, dal canto loro, ammettono che la road map di Sisi non potrà includere le stesse aspirazioni democratiche che hanno accompagnato la caduta di Mubarak, ma la realpolitik e i solidi interessi comuni che legano il Cairo all’Occidente avranno la meglio. La posta in gioco, infatti, è troppo alta: combattere i militanti jihadisti nel Sinai, mantenere la pace con Israele e rilanciare l’economia sono solo alcune delle priorità occidentali.
Gli israeliani sono forse i più sollevati dal fatto che i militari siano tornati al potere in Egitto: fin da quando Sadat ha aperto le porte agli investimenti stranieri, infatti, l’esercito è stato un buon cliente con il quale fare affari in brutti momenti, e, come Morsi, anche Al-Sisi accetta che il trattato di pace sia sacrosanto. Il Regno Unito rimane il principale fornitore di investimenti diretti esteri in Egitto e gli ingenti debiti nei confronti delle aziende britanniche non verranno pagati facilmente se Londra non mantiene buoni rapporti con il Cairo. L’industria della difesa americana, dal canto suo, ha sempre fatto affidamento sul partner egiziano e sulla sua sete di armamenti. Per quanto riguarda, invece, l’Unione Africana, che aveva espulso l’Egitto dall’organizzazione dopo la cacciata di Morsi, essa si trova ora sotto la crescente pressione dell’Unione Europea affinchè riveda la propria decisione e riassegni la membership al nuovo Egitto di Al-Sisi.
Conclusioni
Lo scenario più probabile per l’avvio di questa presidenza vede la continuazione della respressione contro le fazioni estremiste e il tentativo di riconciliazione con le forze dell’opposizione più moderate, tenute comunque ai margini dell’arena politica, oltre che la cooptazione di un’ampia serie di attori che avevano giocato un ruolo centrale durante la presidenza Mubarak.
Qualora la repressione contro l’opposizione islamista e laica non risciusse a porre fine alla violenza interna, fomentata anche dalla crisi libica e dall’instabilità cronica della regione mediorientale, diventerebbe quasi impossibile risollevare l’economia, che subirebbe gli effetti negativi sia dell’instabilità interna che della sfiducia dei mercati internazionali. Di conseguenza, verrebbero danneggiate anche le relazioni con Europa e Stati Uniti e si riproporrebbe lo stesso scenario caotico dei tre anni appena trascorsi. Dal caos i Fratelli Musulmani e i movimenti giovanili di Piazza Tahrir potrebbero prendere nuova forza e riconquistarsi lo spazio loro sottratto presentandosi come l’unica reale alternativa al potere dei militari.