Nell’irrequieta regione caucasica le elezioni presidenziali hanno creato una preoccupante instabilità politica, sociale ed istituzionale. Se la popolazione nutre speranze di sviluppo e lamenta una gestione miope e corrotta dei fondi russi per la ricostruzione, le classi dirigenti si trovano nel vivo di uno scontro tra partiti-clan che non corrisponde ad una dialettica di stampo ideologico o programmatico: una lotta per il potere senza esclusione di colpi, nella quale non si è esitato a ricorrere ai vertici giurisdizionali così come alla mobilitazione popolare. E nella quale, ancora una volta, è emerso il ruolo di Mosca e la vitale importanza affinché Tskhinval mantenga con essa un rapporto privilegiato.
Sembra non esserci mai pace in Ossezia del Sud: la piccola repubblica, incastonata tra Georgia e Ossezia del Nord, si trova nuovamente al centro di una turbolenta crisi politica che ne sta paralizzando l’apparato istituzionale.
Il casus belli, questa volta, è rappresentato dalle elezioni presidenziali svoltesi il 13 e 27 novembre scorsi, durante le quali i cittadini erano chiamati a scegliere il successore di Eduard Kokoity, presidente de facto dal dicembre 2001 e al quale la Costituzione impedisce la candidatura per un terzo mandato. Tra i sedici candidati presentatisi al primo turno sono emerse le figure di Anatoly Bibilov, supportato dal presidente uscente oltre che da Mosca, e di Alla Dzhioyeva, ex Ministro dell’Istruzione a capo del Partito indipendente e appoggiata dall’ex Ministro della Difesa Barankevich.
La regione osseta, popolata da circa sessantamila [1] abitanti e formalmente annessa alla Georgia, di fatto si governa in modo autonomo da sempre: dopo la guerra dei cinque giorni del 2008, la Federazione Russa ne ha riconosciuto formalmente l’indipendenza, imitata solo da pochi altri Stati (tra cui Venezuela e Nicaragua). Questo è solo uno dei molteplici motivi per i quali il ruolo della Russia è particolarmente importante nelle dinamiche interne ed internazionali dell’Ossezia del Sud.
In base ai risultati preliminari del secondo turno, la Dzhioyeva era in vantaggio su Bibilov, con oltre il 56% dei suffragi, contro il 40% del candidato del Partito dell’Unità del presidente Kokoity: dinanzi a queste proiezioni, Bibilov ha rifiutato di riconoscere l’esito elettorale, chiedendo alla Corte Suprema di pronunciarsi in merito a presunti abusi durante le operazioni di voto. La sentenza della Corte ha annullato la tornata elettorale poiché viziata da brogli e ha altresì impedito alla Dzhioyeva di ripresentarsi alle prossime elezioni, stabilite per il 25 marzo 2012.
La sentenza del massimo organo giurisdizionale osseto ha scatenato la reazione veemente non solo della candidata indipendente e dei suoi elettori, la quale è giunta sino ad auto-investirsi della carica di presidente, ma anche di molti cittadini i quali, pur non essendo esplicitamente pro Dzhioyeva, hanno protestato in nome del diritto a sapere la verità circa le operazioni di voto e il suo esito [2]. Molti elettori, infatti, hanno percepito la pronuncia della Corte come un atto di forza per modificare l’espressione della volontà popolare, a pieno beneficio del partito del presidente uscente, anziché come il risultato di una essenziale funzione di controllo e trasparenza. Questa sensazione è stata ulteriormente corroborata dall’indiscrezione secondo la quale la sentenza della Corte Suprema non sarebbe stata emessa durante una regolare seduta plenaria, bensì su delibera del suo presidente, Atsamaz Bikhenov, uomo di fiducia di Kokoity.
L’ondata di proteste ha raggiunto un’intensità tale che la stampa internazionale è giunta a chiedersi se non si fosse di fronte ad una nuova rivoluzione colorata in fieri. Durante questa snow revolution (così soprannominata per la tenacia con la quale i gruppi di manifestanti sono rimasti nelle piazze prospicienti i palazzi del potere nonostante le abbondanti nevicate dell’inverno osseto) non sono mancati attimi di forte tensione: i sostenitori della Dzhioyeva hanno tentato l’assalto alla Commissione elettorale centrale, provocando l’intervento delle truppe antisommossa (OMON) e nei giorni successivi la situazione generale sembrava sempre più precaria, inasprita dai toni accesi del confronto tra i candidati e dalla reciproca attribuzione di responsabilità circa il rischio che scoppiasse una vera e propria guerra civile.
Questa crisi, d’altro canto, non trova fondamento in una significativa contrapposizione sul piano ideologico o partitico, essendo stata determinata sostanzialmente da un risultato elettorale differente da quello atteso dall’entourage di governo. La Dzhioyeva ha fatto parte dello staff di governo del presidente Kokoity fino al febbraio 2008, quando fu licenziata e subito dopo processata per diversi reati legati allo svolgimento del suo incarico istituzionale, vicenda che tuttavia non sembra averne intaccato la credibilità: da quel momento l’ex Ministro dell’Istruzione è diventata strenua oppositrice del Presidente, ma non promotrice di un programma politico realmente alternativo.
Durante la campagna elettorale, la Dzhioyeva ha puntato soprattutto il dito contro la gestione, giudicata inefficiente e corrotta, dei flussi di denaro provenienti da Mosca, che attualmente rappresentano la primaria fonte di finanziamento della ricostruzione del paese, promettendone un utilizzo più equo, razionale e soprattutto trasparente. La critica anti-establishment ha riguardato anche la diffusa percezione tra la popolazione osseta che l’amministrazione del potere da parte di Kokoity sia fortemente autoritaria e carente di qualsiasi processo partecipativo dei cittadini
Cercando di approfondire le cause dello scontro, assumono rilevanza degli aspetti che non è infrequente riscontrare nella dialettica politica di quest’area geopolitica. E’ noto che nei paesi nati dalle ceneri dell’Unione Sovietica le élite di potere sono spesso costituite da potenti clan familiari, i quali riescono, attraverso i suoi appartenenti, a creare una stretta integrazione tra potere politico ed economico.
Nel caso di specie, può essere significativo il fatto che i principali sostenitori della Dzhioyeva siano l’ex ministro Barankevich e Jambolat Tadeev, attuale allenatore della nazionale di lotta libera russa: in merito a quest’ultimo, è nota la sua forte ostilità nei confronti di Kokoity, cui addossa la responsabilità dell’uccisione del fratello Ibragim, avvenuta nel 2006 dopo il passaggio dei fratelli Tadeev all’opposizione e la riconferma elettorale di Kokoity al secondo mandato presidenziale [3]. Sembra in questo modo configurarsi uno scontro tra due fazioni, quello Kokoity-Bibilov contro quello Barankevich-Tadeev-Dzhioyeva: e se qualcuno sospettava che quest’ultima fosse l’anello debole del suo gruppo, sembra essere stato smentito dalla fermezza con la quale si è contrapposta alla sentenza della massima corte osseta e ha guidato il movimento di protesta.
La sua determinazione si è manifestata anche attraverso i ripetuti appelli rivolti a Mosca, con i quali ha voluto non solo rassicurare circa la sua fedeltà al Cremlino, ma anche premere affinché l’emissario russo inviato come mediatore (che ha rifiutato di incontrare, considerando la crisi una questione interna osseta) tenesse conto anche della volontà popolare espressa durante la tornata elettorale. Non sono mancati neanche gli appelli all’Unione Europea, ma quest’ultima ha evitato di prendere posizione, dal momento che non riconosce il quadro istituzionale e legale nel quale si sono svolte le elezioni.
E’ stato alla presenza dell’emissario del Cremlino, Sergej Vinokurov, che le parti hanno firmato l’accordo che ha permesso di stemperare uno scontro politico e sociale che stava via via surriscaldandosi: l’intesa prevede la riammissione della candidata del Partito indipendente alle elezioni del prossimo marzo, la presidenza ad interim dell’attuale primo ministro Vadim Brovtsev e le dimissioni del presidente della Corte Costituzionale e di altri dirigenti di spicco.
All’indomani dell’accordo, tuttavia, l’argomento su cui maggiormente si dibatte è come la Russia abbia gestito l’intera faccenda, partendo dal sostegno a Bibilov, passando per le giornate di protesta, fino al raggiungimento dell’intesa che, per il momento, sembra aver riportato la tranquillità nelle piazze ossete.
Per quanto concerne l’appoggio al candidato del presidente uscente, si può supporre che la linea scelta da Mosca sia stata quella della continuità: in un momento di parziale appannamento della figura di Putin e di calo dei consensi di Russia Unita, Mosca è apparsa relativamente “disimpegnata” nello scacchiere osseto e dunque incline al mantenimento dello status quo. I critici imputano un approccio superficiale al Cremlino, il quale non ha saputo leggere il malcontento sociale e ha pubblicamente appoggiato la candidatura di Bibilov fino a una settimana prima della chiamata alle urne, schierandosi pur essendo a conoscenza delle critiche alla gestione dei fondi che elargisce all’Ossezia e nonostante nessuno dei candidati mostrasse una volontà di distacco dall’orbita russa. La stessa Dzhioyeva, non a caso, oltre a ribadire ripetutamente la sua lealtà a Mosca, ha reso nota la creazione di un Fronte Popolare in appoggio alla candidatura di Putin alle presidenziali del 4 marzo 2012.
C’è da chiedersi cosa farà ora la Russia: riportata la calma a Tskhinval e in vista della prosecuzione della campagna elettorale, deciderà nuovamente di schierarsi (e se sì, con chi?) o si limiterà ad un ruolo da mediatore? Ciò che appare chiaro è che l’Ossezia non può neanche ipotizzare un’emancipazione dall’influenza dalla Federazione Russa: anche non volendo prendere in esame l’idea di unificazione con l’Ossezia del Nord sponsorizzata da parte della classe dirigente osseta, i flussi di finanziamento russi sono semplicemente vitali per la piccola repubblica. Il Cremlino, da parte sua, non può permettersi una nuova burrascosa tornata elettorale: un sovvertimento brusco dei vertici politici, in una regione chiave come l’Ossezia del Sud, innescherebbe un pericolo di destabilizzazione dell’area e un eventuale effetto domino, che minaccerebbe gli sforzi russi di controllo della regione.