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Elias Canetti, Il gioco degli occhi: Autobiografia atto III (e ultimo)
Creato il 01 settembre 2012 da SpaceoddityE sono, ancora una volta, foto di persone, ma non più solo persone legate solo all'infanzia o alla prima giovinezza dell'autore, nomi senza volto, profili rintracciati tra le labbra dell'interlocutore, bensì quelle figure viennesi del primo trentennio del '900 che hanno fatto la storia della cultura europea. Parlo, per esempio, di Hermann Scherchen, il cui nome viene sempre abbreviato, per marcare le distanze e le differenze, più che per un senso di intimità. Eppure, una qualche forma di consuetudine la si crea, sia pure obtorto collo, giacché lo stacanovista direttore d'orchestra, il pioniere della nuova musica e del nuovo in generale, emblema di quel dominio assoluto della compagine orchestrale che confluirà nelle riflessioni di Massa e potere funge da filo conduttore di tutti questo periodo (1931-1937) della vita di Canetti.
L'incontro con Scherchen è ancora più importante se lo si considera quale preludio e mezzo per il contatto che si realizza tra lo scrittore e Anna Mahler, figlia del compositore. La donna, scultrice, viene descritta come una folgorazione per la sua bellezza e la sua personalità incontenibile, aristocratica e capricciosa, vagamente anaffettiva, tutta contenuta negli occhi e nel loro gioco di potere sul mondo e le persone. E tutto ciò è un pallido riflesso di quello che la madre, la celeberrima Alma Schindler, ha rappresentato per Canetti. Mai ho letto un ritratto più spietato su una delle donne più ammirate nella cultura occidentale del '900: l'autore mostra nei suoi confronti un profondo disagio, non le risparmia le più feroci considerazioni, su quanto fosse, ormai, brutta e vecchia, e beffarda, cattiva, arrogante. Elias Canetti non riesce a spiegarsi il fascino che la donna ha esercitato prima su Gustav Mahler (dal quale eredita il cognome), poi su Kokoschka, quindi su Gropius e su Werfel, per non parlare dell'amicizia dimostrata da personalità del calibro di Alban Berg, molto caro all'autore in quanto fu la prima grande personalità a scrivere su Auto da fé. Per chi, come me, è sempre rimasto affascinato da questa mantide della genialità, il ritratto di Alma Mahler che emerge da Il gioco degli occhi è una salutare e realistica doccia fredda.
Spicca in positivo, invece, nella sua contraddittoria e affannosa genialità, lo scultore Fritz Wotruba, altra presenza costante di questi anni, artista al quale nel '55 Canetti dedica uno scritto importante e ormai classico. E, accanto a lui, un'incredibile galleria che comprende Robert Musil, Hermann Broch, l'odiatissimo Franz Werfel, la sconclusionata, misteriosa e potente famiglia Benedikt, Ludwig Hart, Alexander von Zemlinsky, ma soprattutto il dottor Sonne. Su di lui, Elias Canetti impianta l'edificio di un mito di sapienza e cultura fuori del comune: lettore accanito di giornali, critico caparbio ed esatto, storico intelligentissimo, conoscitore sbalorditivo della Bibbia in ebraico e delle sue traduzioni tedesche (con molte perplessità sull'edizione che Martin Buber realizzava in quegli anni), dell'arabo con la sua poesia e la sua tradizione, nonché della cultura spagnola ed europea del medioevo, il dottor Sonne surclassa per prestigio personale altre figure ben più celebri e diventa arbitro della concezione estetica e letteraria di Canetti.
Nel suo insieme quest'autobiografia si configura come un resoconto della giovinezza dell'autore, perché le mille e più pagine dei tre volumi arrivano al 1937, quando Canetti aveva ancora 32 anni. Solo negli ultimi capitoli de Il gioco degli occhi si comprende fino a che punto quest'impresa imponente sia in realtà la storia di Elias figlio, la storia di un legame fantasioso, tenero, gagliardo e difficilissimo con la madre, Mathilde Arditti. È senz'altro il suo, infatti, il ritratto che sovrasta l'impalcatura del libro e la scruta con uno sguardo sovrano, drammatico, mai rasserenato. Anche se in questi anni è molto meno presente nel quotidiano del figlio, la donna rimane protagonista di una visione del mondo di cui l'autore non si libererà mai, ma anzi ne rimarrà sempre orgoglioso.
Più ancora degli altri due volumi, Il gioco degli occhi è una galleria fitta di personaggi che si incontrano, di cammei occasionali, di macchiette capaci di lasciare il segno, di momenti che vanno rivisti sotto aspetti diversi. Non ci sono più le mille cartoline dall'Europa che avevano caratterizzato La lingua salvata, né le complesse etimologie ed eziologie di Il frutto del fuoco. L'opera letteraria di Canetti a questo punto è realtà: il romanzo, Auto da fé, viene pubblicato e due opere teatrali (Nozze e La commedia delle vanità) sono state lette a uditori selezionati di volta in volta con successo o con clamorosi fiaschi; perfino Massa e potere, ancora lontanissimo dall'essere un libro, assume già una sua consistenza concreta rispetto alle vane promesse e ai generici - seppure caparbi - propositi degli anni precedenti. L'autore è, sotto ogni aspetto, una figura tra le altre e il confronto con gli intellettuali ed artisti della Vienna anni '30, genera in diversi passaggi una qualche instabilità narrativa assente negli altri volumi dell'opera, come se i singoli capitoli fossero stati scritti in momenti molto diversi della vita dell'autore.
La Storia (o la consapevolezza della Storia) invade il libro di Canetti, con le sue turbolenze letali di portata più ampia (l'ascesa di Hitler, la guerra civile spagnola), scomponendo il quadro unitario che il giovane aveva cercato di tracciare intorno a sé, quello sforzo di sintesi necessario all'uomo per vivere nel mondo. Sulla dissoluzione di quest'arazzo, sull'esaurirsi di questa giovinezza nel segno della madre, si fonda il punto finale che l'autore mette alla sua scrittura propriamente autobiografica. Il dottor Sonne, con la sua analisi meticolosa e irrinunciabile, rappresenta proprio un mondo intero che si dissolve sotto i colpi dell'intelligenza non meno che della follia e della morte, nonché l'inizio di un'avventura ben diversa che si configura nelle opere che seguiranno e consacreranno Canetti a maestro nella letteratura europea del '900. Forse proprio per questa sua irrequietezza tra storie diverse, tra lirismo e infuocata razionalità, per il suo tono meno romanzesco e sognante, molto più amaro e talvolta anche brusco, Il gioco degli occhi rappresenta un tuffo esistenziale a tutto corpo in un mondo che risuona di verità e di forza, senza soffrire di fatue nostalgie.
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