Eliza Macadan, IL CANE BORGHESE, La vita felice 2013
Cosa succede a scrivere ricordando e imparando?
Sono domande che mi vengono leggendo questi testi di Eliza Macadam, poetessa rumena che scrive in italiano. “E ci si accorge come alcuni versi varchino il dire corrente di certa poesia, i consueti codici, e vadano all’origine del latino in comune memoria”, Elio Grasso nella presentazione.
Ne consegue, già a una lettura a vista, il lindore del dettato e delle immagini, vòlte dritte allo scopo della comunicazione, senza fronzoli, come se fosse la lingua stessa a portare un suo senso bambino. Ora, se, certo, un dato meramente tecnico non è portatore, di per sé, di una qualità, tuttavia serve a focalizzare un dato di coscienza, misurabile nella distanza o vicinanza dal tema centrale della propria scrittura. Qui è data una distanza – in funzione significativa nell’ultimo testo – come azzeramento:
non v’è cielo che cada
siamo noi
che saliamo
Ecco: gli antichi, quantomeno, attribuivano ai passaggi epocali il significato simbolico di un’attesa, di un battesimo rigenerante, prima del quale si percepiscono segni e si vedono cose che, malgrado l’evidenza, non si vedevano:
La luna si sdraia dentro di me
per far brillare il mio desiderio
salgo sulla torre a pagamento
per vedere la stella aggiunta all’orsa maggiore
guardo le adolescenti in calore
trovo un senso
per un altro giorno
raccontami l’astrofisica come una fiaba
prima di dormire
p. 77
E’ prima dei segni di un’apocalisse questa poesia, segni calati nella banalità del quotidiano.
Serve proprio l’immagine di un’apocalisse per cogliere la babele linguistica entro cui bisogna scegliere di parlare o di scrivere la propria lingua, inscatolare gli effetti personali mentre intorno ondeggia l’estate torrida, o una strada che si srotola sotto i piedi – un altro paesaggio di confine, quindi -
dal cielo dell’apocalisse
un dinosauro
si china a terra
la donna piena di ornamenti/l’adulterina
mi passa accanto
mescolata tra coloro che parlano in lingue
qualcosa di nuovo e qualcosa di vecchio
ti regalo per questa fine del mondo
qualcosa di blu e qualcosa di rosso
scorre nei fiumi
e riempie i nostri occhi di lacrime
saliamo sull’ultimo treno
per il nulla
con un bagaglio a mano
p. 70
Si tratta di perdite, insomma:
non ho più patria
l’ho lasciata alle spalle
senza che se ne accorgesse
i fili sono impigliati
nel palco dell’infanzia
le parche tessono
di giorno una tela
che le notti districano
p. 67
E’ chiaro adesso, mentre si legge: non si può scrivere calmi e tranquilli, ma con la chiarezza di una ratio allucinata. Ecco: lingua non propria vuol dire reimparare la nominazione partendo dalla nudità, da un desiderio di rinascita capace di scrostare gli strati archeologici che stritolano le parole portandole via verso un proprio destino. - Provate a tradurre in un’altra lingua un poeta “semplice” come Sandro Penna, e vedrete l’effetto straniante che produce la sua semplicità, e i grossi problemi di forma e di senso che ne conseguono -
fuori di testa
butto le parole
fuori dal poema
dopo di me
la semantica chiude
per inventario
p. 57
La lingua, ci sembra di capire da questi versi, non è portata da una madre, da una condivisione sociale, ma dalla frattura dei segni che appaiono quando le immagini cominciano a sfaldarsi davanti ai nostri occhi mentre noi ridiamo. Se i poeti le vedono, allora le intuiscono, allora vuol dire che qualcosa sta accadendo nuovamente.
rimango qui un secolo
un altro ancora starò in silenzio
l’araldica tornerà alla natura
quando la natura sarà stanca
e non riceverà nessuno
fin quando la terra
alzerà recinti di filo spinato
raccoglierò satelliti dall’erba
i miei capelli cresceranno
fino al cielo dell’infanzia
poi tornerò da giovane
p. 60
Sebastiano Aglieco
Wurzburg, agosto 2013