Elliot e le Clayographies

Creato il 27 settembre 2013 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Il cinema di Adam Elliot[i] è stato tra i primi a scorgere nuove vie per affrontare percorsi inesplorati nell’animazione contemporanea, coniugando una perfetta sintesi tra una minuziosa creazione plastica e cupe tematiche.

Il suo modus operandi rimane tra le soluzioni più riuscite del paradosso dell’animazione: così lontano visivamente dalla nostra realtà empirica, ma così prossimo alle emozioni umane. Il risultato è impeccabile e ben costruito, grazie all’utilizzo di diversi mezzi espressivi.

In questa breve – e spero esaustiva – riflessione dedicata all’arte di Elliot, farò riferimento soprattutto alle due opere più conosciute e formalmente migliori di questa breve filmografia[ii]: Harvie Krumpet e Mary & Max, entrambe girate con il metodo dello stop-motion[iii]. In questa tecnica d’animazione, nota anche con il nome di claymation[iv], la creazione dei characters e delle meravigliose scenografie  è realizzata con l’impiego della plastilina.

È difficile entrare in contatto con questo mondo senza esserne totalmente catturati e trasportati in una sensazione di sublime bellezza: emozione prodotta, non soltanto dalla contemplazione dell’oggetto stesso.

Come nella concezione romantica del sublime, anche in questo mondo il concetto è correlato e opposto a quello di bello. Analizzando l’idea di Burke, questa categoria estetica è “tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in un certo senso terribile o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore”[v].

Questo tipo di sentimento, chiamato “delightful horror”, ci permette di conoscere l’abilità che Elliot possiede nel passare agevolmente da qualcosa di stravagante e divertente a qualcosa, invece, di molto oscuro e complesso. Si sente profumo di cioccolata, di latte in polvere, di dolci e liquirizia ma anche l’acuto aroma di medicine e antidepressivi scaduti, di ospedali e centri di cura, l’odore sulfureo di morte.

Diventa facile comprendere come questo “spirito” aggiunga all’opera un’umanità ancor più marcata: per esempio, tutti hanno una peculiarità – non si parla mai di disability, ma di un modo differente di percepire gli altri e se stessi! – che trasformano, col passare del tempo, in una caratteristica unica.

La sindrome di Asperger e quella di Tourette, la demenza senile della madre di Harvie e la paralisi celebrale del cugino, le acute forme di cecità e sordità non fanno che rendere i personaggi fallibili come sono gli esseri viventi. L’umanità esiste nella realtà fenomenologica degli stessi personaggi, e non solo nell’elaborata sceneggiatura. Loro sono gli “others”[vi], nati per non essere grandi e, tantomeno, per non diventarlo. Forse è vero; non rimarranno altro che poveri reietti, isolati e maltrattati dalla società, ma il loro spirito è grande e pieno di speranza.

”Ho voluto espandere i confini del lungometraggio animato e fornire al pubblico qualcosa di nuovo, qualcosa in equilibrio tra luce e buio, qualcosa che Disney, Pixar e Dreamworks non avrebbero mai osato toccare. Cosa c’è di meglio di una storia d’amore tra una bambina australiana di otto anni e un quarantaquattrenne, obeso-ebreo-ateo con la sindrome di Asperger che vive a New York? Non sono interessato alla solita roba animata e, tantomeno, non m’interessa parlare con animali o interagire con degli scoiattoli. Tutti miei film sono profondamente personali e si basano sulle storie della gente che mi circonda: film profondamente impegnati, che muovono e fanno pensare il pubblico. Se volete qualcosa di leggero e soffice, andate a Disneyland.”[vii]

Prendiamo atto che di fronte a noi non ci sono storie per bambini, ma fiabe mature, raccontate con un pizzico di veritiero cinismo e con un gustoso senso del grottesco.

Questi importanti elementi non fanno che rendere l’atteggiamento dello spettatore, nei confronti di questo modo di fare cinema, straniante, accompagnato da un forte senso di alienazione. Eclatante in questo senso è la scena dell’apprendimento della morte dei genitori da parte del piccolo protagonista in Cousin: ad un certo punto si vede il ritratto di famiglia del cugino, dove, insieme ai genitori, indossa una t-shirt con una scritta elogiativa nei confronti di Cristo; proprio nello stesso momento si viene informati dalla voce narrante che la sua famiglia è rimasta vittima di un incidente automobilistico. Momento irripetibile, sintesi perfetta di questa forma di intrattenimento.

Lo spettatore si ritrova coinvolto in questo strano processo, prudente nel ridere come nel piangere, perennemente occupato da climax di forze opposte e contrarie; una lunga battaglia di espressioni facciali attraverserà il nostro volto in una splendida paresi emotiva. Diventeremo simili a Max, incapace di leggere ed elaborare espressioni facciali, perseguitati dall’incomprensione tra il riso e l’amarezza.

Questa natura ambigua si riallaccia perfettamente all’elemento citato prima: il grottesco. La sua essenza risiede proprio nell’essere spinto da due forze contrapposte: una di negazione e di abbassamento, l’altra di nascita e creazione. “Il grottesco è, in primo luogo, affermazione della forza della vita (e delle sue capacità rigenerative) contro le forme (cristallizzate) del mondo. E questa affermazione passa attraverso l’abbassamento e la messa in questione dell’identità e della gerarchia dei valori costituiti…È la carica eversiva del riso carnevalesco che afferma la perennità di un divenire ”indifferente al senso”, che sottrae la morte alla sua dimensione simbolica e ultimativa determinandola come perenne conversione nella vita, come è reso manifesto dall’immagine – tipicamente grottesca – della vecchia gravida”[viii]. Nei suoi film ci avviciniamo molto spesso a questa forma di riso, che rimane, assolutamente, un segnale di totale riflessività. L’unica differenza che ha col grottesco, sia come genere che  procedimento narrativo, è la delicatezza nel trattare i personaggi rappresentati: il “corpo grottesco”, che è insito empiricamente nell’animazione[ix], in questo tipo di esperienza ha un’importanza secondaria rispetto allo “spirito grottesco”.

Per avvicinare ancora di più lo spettatore e renderlo partecipe delle proprie invenzioni artistiche, Elliot si avvale per tutte le sue storie, di un’impronta biografica affiancata dallo strumento della voce narrante.

Quest’ultima è, molto spesso, un metodo mal utilizzato nel campo cinematografico: impiegato per rendere il racconto attraente, rischia sempre di cadere nell’assoluta retorica. Nel cinema di Elliot, invece, è adoperato sia per ovviare alle comprensibili difficoltà nell’animare i characters nelle scene di dialogo che, per accompagnare dolcemente lo spettatore in un mondo complesso e alienante. La voce extradiegetica definisce i limiti dell’opera, narrando storie di esperienze personali ispirate alla vita del regista, avvicinando il racconto allo spirito indagatorio del documentario sociale.

Il povero cugino con paralisi celebrali, l’amico autistico di una profonda corrispondenza epistolare, la polverosa periferia di Mount Waverley, le paure e i sogni di Mary sono tutti fatti basati sulla vita del regista, senza rischiare mai che la realtà possa essere d’intralcio a una buona storia. Le sue animazioni, per questa duplice appartenenza, sono conosciute anche col nome di clayography.

Un giorno, forse, anche la nostra mediocre distribuzione nazionaldemenziale, si accorgerà di questo fenomeno australiano.

Per lo meno è quello che speriamo noi, nostalgici monocromatici del cinema etereo del grande Busby Berkeley.


[i] Regista, animatore e sceneggiatore australiano, nato con un disturbo fisiologico, causa di leggeri tremolii alle articolazioni, è riuscito a incorporare il suo difetto in una estetica originale ed unica. Oggi questo stile è notoriamente conosciuto con il nome chunky-wonky.

[ii] La sua attività ha inizio nel ’96 – data che coincide con gli studi al Victorian College of the Arts – con il cortometraggio Uncle per proseguire con Cousin e Brother. Il successivo Harvie Krumpet, 2003, fu il trionfatore agli Oscar nella categoria per migliore cortometraggio animato. Grazie a questo clamoroso successo il lavoro di Elliot proseguì verso la realizzazione del lungometraggio Mary & Max.

[iii] E’ una delle più antiche forme di animazione e rimane ancora oggi una delle più popolari. Questa tecnica certosina consiste nella creazione di modelli e della successiva fase di fotografarli in una serie di piccoli movimenti. I modelli sono disposti su un set, illuminato come un qualsiasi altro set cinematografico. Ogni film gira normalmente a ventiquattro fotogrammi al secondo: nel caso dell’animazione stop-motion ogni fotogramma è ripreso due volte, consentendo la ripresa di soli – si fa per dire! – dodici scatti fotografici.

[iv] Il termine claymation è stato coniato da Will Winton che, insieme a Bob Gardiner nel 1973, presentò una delle prime animazioni, Wobbly Wino, realizzate con questa tecnica. L’uso di questa tecnica è stato perfezionato dall’animatore inglese Nick Park, membro della casa di produzione inglese Aardman Animations, con la serie di Wallace e Gromit.

[v] E.Burke, Ricerca sull’origine delle idee del sublime e del bello (Philosophical Enquiry into the Origin of Our Ideas of the Sublime and Beaufitul.) Minuziano, Milano 1945.

[vi]  Mi riferisco alla citazione iniziale di Harvie Krumpet: un frammento di uno dei più famosi monologhi di Malvolio, personaggio shakespeariano della Dodicesima Luna, è seguito dalla frase ”..and then..there are others..”, modificandone comicamente, e tragicamente, il significato.

[vii] www.awn.com/articles/mary-and-max-elliot-and-clayographies. Intervista rilasciata nel periodo dell’uscita americana di Mary & Max.

[viii] R. De Gaetano, Il corpo e la maschera. Il grottesco nel cinema italiano, Bulzoni Editore, Roma 1999.

[ix] L’animazione è arte del non reale; governata, da uno spirito frankensteiniano, nella folle e minuziosa ricerca della realtà fenomenologica.

 Raffaello Ruggeri


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