L'Amata. Lettere di e a Elsa Morante, a c. di DANIELE MORANTE, con la collaborazione di GIULIANA ZAGRA, Torino, Einaudi, 2012, pp. 663.
Nella scelta di un titolo riuscire a rendere l'idea di un libro è un lavoro delicato: si butta qualcosa per dare spazio ad altro, si esalta un aspetto mentre si nasconde un tema importante. Ma il titolo ha sortito un effetto se riesce a incuriosire: e per questo carteggio L'amata è un titolo riuscitissimo, perché attira le lettrici e i lettori innamorati di Elsa Morante, nella promessa di ritrovare delle lettere piene d'amore verso la propria autrice prediletta. Fin dalle prime pagine, però, viene da chiedersi se la raccolta si sarebbe potuta chiamare anche in un altro modo, ovvero: L'amante. Non nel senso di colei che tradisce, ma nel significato antico di colei che ama (se non fosse già il titolo di un romanzo di Yehoshua, della Duras e di altri libri minori). Viene in mente allora un meno suggestivo Colei che amò, ma sarebbe stato decisamente troppo arcaico. È bello, in fondo, che il libro si chiami così, L'amata, ma dalla lettura delle lettere emerge una ben diversa realtà, molto più amara. Sia i romanzi che i racconti e le poesie della Morante sono stati lodati anche in alcune di queste lettere, è vero, ma la reale tristezza è che queste sono tra le sole lettere piene d'amore che si scorgono in queste righe.
Dal carteggio pubblicato da Einaudi, Elsa Morante si rivela come una donna colma d'amore per il prossimo: un amore spesso frainteso, snobbato, non capito, lo stesso amore che, con più successo, riversava nei suoi romanzi. "Ma il segreto di tutto è che tu credi forse questo: che tu credi nel genere umano, ne hai ammirazione, senso della bellezza e eccezionalità umana: un modo raro, oggi, di guardare il mondo" (p. 290), le scrisse Italo Calvino a proposito del premiato L'isola di Arturo. Sì, i complimenti non mancarono per questa scrittrice che non rese gli altri, contemporanei e posteri, indifferenti al proprio passaggio nel mondo delle lettere. Ma dall'"amata" ci si aspetta di più, ci si aspetta una donna che sia stata amata e venerata, anche e soprattutto nella sua femminilità, umanità. Invece si trova una delusissima donna che si consola, scrivendo, dalla mancanza d'amore degli altri.
Fin dall'inizio del carteggio, si scorge un' Elsa Morante che non conosce argini nel proprio affetto, non conosce divieti - pensiamo all'amicizia con Luisa Fantini, disegnatrice e illustratrice. Le lettere firmate Elsa sono strabordanti dichiarazioni d'amicizia che finiscono con l'invio di un aiuto economico a vantaggio dell'amica Fantini, non certo l'unica elargizione di soldi a favore di amici testimoniata da questo carteggio, anzi. Le dichiarazioni d'affetto insomma venivano confermate spesso da azioni magnanime e più che amicali. In queste lettere in particolare, spedite presumibilmente tra il '33 e il '42, c'era un reale interessamento per Luisa Fantini, per il suo umore, il suo stato d'animo, per il suo lavoro e la sua esistenza, per poi arrivare al famoso invio di denaro molti anni dopo, nel 1965. Seguono le lettere del misterioso RTM, Richard, il fidanzato respinto che tanto galante non fu. Richard infatti ricoprì Elsa di insulti, offese che riguardavano addirittura la sua sfera professionale, e di cui abbiamo traccia. Diede alla Morante della "bugiarda" e della "puttana" (p. 82) ma lei lo perdonò cercandolo di nuovo, anche dopo il matrimonio con Alberto Moravia, per quello che sappiamo. Addirittura, nonostante tutti quegli insulti, fu la scrittrice invece a chiedere scusa a Richard (si presume nel 1957): per "una freddezza offensiva [...] ti risposi con una lettera che sembrava piuttosto un bollettino ufficiale che una lettera d'amicizia" (p. 91).
Nel secondo capitolo del libro spicca la corrispondenza con il marito Moravia. Quasi tutte le lettere firmate dallo scrittore, molto placidamente, terminavano con un "Ti abbraccio", o con un "Con affetto", saluti che si addicono più a una conoscenza che abbia appena superato i limiti della formalità, e non a un marito appassionatamente innamorato. Verso il 1938, con tutt'altro stile, Elsa Morante gli aveva scritto: "Io vorrei avere i tuoi trent'anni e avere scritto quello che hai scritto tu. [...] Io vorrei disperatamente essere te per essere te, forse solo così potrei dirti, entrare... Ma è difficile spiegarlo" (p. 137), una dichiarazione non tanto di amore, quanto di vera e propria venerazione. Poco più di dieci anni dopo gli lasciò le seguenti parole: "Vorrei poter lavorare davvero, o amare davvero, e sarei felice di dare a qualcuno o a qualcosa tutto quello che posso, purché la mia vita fosse compiuta finalmente e trovassi il riposo del cuore" (p. 147). Del resto, come tacere sul fatto che il carteggio tra i due sposi sia più che altro un rendiconto che ciascun coniuge fa dei propri spostamenti, e non uno scambio di lettere amorose? L'insoddisfazione della scrittrice era palese già nel '38, a dir la verità, ben prima del matrimonio del '41. In un abbozzo di lettera leggiamo: "Ogni giorno vedo degli esseri - e devo fingere che non m'importi di niente - e continuamente penso dove sarai, che cosa farai. Se a te importasse, non te ne saresti andato o a quest'ora saresti già tornato. Ma tu sei come un bambino, corri dietro a tutte le cose e mi sembra di vederti sulla piazza o sugli scogli. Corri dietro alla pittrice belga o a quelle due o all'altra di Anacapri, poi vieni e di nuovo scappi via" (pp. 138-139).
Le lettere più appassionate, però, furono senz'altro quelle indirizzate a Luchino Visconti. Il regista seppe tracciare un solco nel cuore della Morante, che ora si ritrovava pienamente nel ruolo di amante: da una parte con una relazione extraconiugale e dall'altra con la certezza, palese, di essere lei colei che amava, almeno all'interno di questa relazione. Le lettere di Elsa Morante al regista furono struggenti ricerche d'amore, mentre di Visconti non ci restano se non brevi messaggi. A contraddire l'apparente indifferenza di Visconti è la notizia, riportata dalla stessa scrittrice, che i due avrebbero parlato addirittura di avere un figlio insieme. Poi il nulla da parte di Luchino Visconti, mentre Elsa Morante gli scrisse e riscrisse bozze di lettere con minime variazioni, e di tanto in tanto fece parlare i gatti al posto suo, per invocare ancora il suo amore perso e cercare nuovi appigli. Sono carte strazianti, queste per Luchino Visconti, di un'intensità inaspettata.
Ma Elsa Morante sapeva essere anche dura nei giudizi: quando qualcosa non le piaceva, lo diceva senza mezzi termini. La schiettezza della scrittrice la portò a dare pareri negativi su autori come Natalia Ginzburg o Italo Calvino. Di entrambi apprezzava l'insieme delle opere, ma a ognuno seppe trovare un singolo difetto (nella fattispecie riguardo un'opera neanche mai pubblicata di Calvino, e a una commedia della Ginzburg).
Nel complesso, l'epistolario - corredato dalle meticolose e utili annotazioni di Daniele Morante e Giuliana Zagra - è una lettura più che interessante, per diverse ragioni. Consente di spaziare tra i più grandi intellettuali del Novecento italiano, conoscendone abitudini, idee, desideri e vizi. Permette di conoscere meglio le opere di Elsa Morante, perché ora ne sappiamo i retroscena e ne leggiamo i giudizi successivi, sia della stessa autrice sia di un nutrito circolo di lettori (e che lettori!). Ma poi questo carteggio apre anche ad altro: apre al mondo interiore di una scrittrice dal tono duro e dal forte cuore. Elsa Morante, che spesso si lamentò per la sua solitudine, aveva una carica di affetto che forse non trovava corrispondenze, e per questo si isolava in mezzo ai gatti.
Forse, il suo, fu un amore inadatto a raggiungere la felicità - amare senza essere ricambiati è una pratica frustrante e deleteria - ma utile, se così si può dire, per riempire di densità quel dolore che noi troviamo nei suoi libri. Forse non fu un amore abbastanza generoso, abbastanza concreto da saper ricambiare chi la amava, ma era un amore che sfarfallava in giro come una falena notturna e che aveva l'enorme difetto - difetto in questa società dove l'umiltà non è un valore e dove si accettano difficilmente le critiche - di dire sempre quello che pensava, anche a costo di criticare gli altri. Lei che, è vero, forse tanto umile non era. Ma Elsa aveva una consapevolezza di sé molto forte, e se la coscienza di sé stessa come scrittrice era alta, la sua opinione di sé stessa come donna era ben più triste (specie se prendiamo l'ultima parte del carteggio). Ecco allora che colei che amò chi non l'amava seppe scrivere (in una lettera a Wilcock del 1° ottobre 1967): " Insomma credo che la generosità e l'amore consistano nell'amare chi ci ama. Amare chi non ci ama è la cosa più facile del mondo, giacché chi non ci ama non ci chiede nulla " (p. 494). [Ornella Spagnulo]
Questa recensione si trova all'interno della rivista "La rassegna della letteratura italiana", 2014, n. 2 (pp. 697-699).
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