Almanya – La mia famiglia va in Germania, La effe (canale 50 dt), ore 23,15.
Almanya – La mia famiglia va in Germania, regia di Yasemin Samdereli, sceneggiatura di Yasemin e Nesrin Samdereli. Con Aliya Artuc, Denis Moschitto, Ercan Karacayli, Fahri Ogün Yardim, Kaan Aydogdu, Petra Schmidt-Schaller, Vedat Erincin.
Un trionfo al box office tedesco, ottimi incassi anche da noi. Un film semplice semplice (ma mica tanto ingenuo) che butta in commedia, e un po’ in melodramma, la storia di una famiglia che arriva nella Germania del boom dalla Turchia. Sugli emigrati, ma non il solito film sugli emigrati. Qui non ci si indigna, non si urla al razzismo e ai torti subiti, si mostra perfino un certa gratitudine per il paese ospitante. Film non profondo, ma irresistibile. Si ride e alla fine ci si commuove. Preparate i fazzoletti.
Ai tempi della grande immigrazione qui al Nord dall’Italia meridionale (se non vi ricordate di persona in quanto non ci avete l’età, almeno qualcosa vi dirà un film come Rocco e i suoi fratelli) circolava una leggenda metropolitana, non si sa quanto verosimile o proiezione invece del pregiudizio dei nordici: che l’immigrato appena arrivato con la sua valigia al Nord e famiglia a carico e sistemato in una qualche casa popolare tirata su in fretta in una qualche periferia torinese o milanese, di fronte al bidet, oggetto a lui sconosciuto, non capendo bene a cosa potesse servire, lo utilizzasse per coltivarci l’amato basilico. Qualche variante diceva pomodori, ma il senso quello sempre è. M’è tornata in mente, quella storia, assistendo in questo molto divertente (e non solo) Almanya alla scena in cui la mamma turca appena arrivata in Germania, vedendo il water della povera casa in cui andranno ad abitare, esclama davanti all’esterrefatto marito (emigrato da tempo in terra teutonica e dunque più aduso a certe faccende): ma che è quella strana sedia? che ci sta a fare lì? L’immigrazione, e l’integrazione più o meno difficile, più o meno riuscita, passa anche attraverso cose minime come queste, fatterelli, quisquilie, bagattelle che però sanno raccontarci i piccoli scontri e incontri di civiltà meglio di roboanti spieghe, passa attraverso la vita materiale, per dirla con qualche storico. La trentasettenne regista tedesca di famiglia turca Yasemin Samdereli ha scelto questa strada delle robe minime e assai quotidiane per mostrarci la venuta in Germania, e tutto quello che ne segue e consegue, di una famiglia partita da un posto a casa di Dio nell’Anatolia, neanche Istanbul (quando il bambino di terza generazione che non parla la lingua avita, ma solo quella dello ja e del nein, dice che i suoi sono arrivati dall’Anatolia, la maestra assai politically correct che sta illustrando sulla mappa continentale le varie provenienze degli alunni – tutto un trionfo di Europa dell’Est e mediterranea – si ritrova spiazzata giacchè la carta appesa al muro dell’aula arriva solo fino alla Turchia sponda europea, e dopo il Bosforo più niente, il vuoto). Facendosi aiutare in fase di scrittura-sceneggiatura dalla sorella minore Nesrin, la regista confeziona un film-commedia (con parecchi slittamenti nel melodramma) assolutamente irresistibile, un film semplice semplice ma non così ingenuo, che va dritto al cuore delle platee e non si vergogna di essere popolare e immediato, e difatti in Germania si è portata a casa molti milioni di euro al box office, e il successo si sta replicando in tutta Europa (Teodora, che lo distribuisce da noi, visti gli ottimi risultati del primo weekend di proiezione ha deciso di aumentare le copie in occasione delle feste). Almanya sta per Germania in turco (e se è per questo anche in arabo, da cui probabilmente la parola arriva), e non ditemi che è rozza, barbara storpiatura, giacchè suona quasi uguale a quel Lamagna che abbiamo sentito proprio la scorsa settimana nel Don Giovanni di Mozart in diretta dalla Scala, precisamente nella celebre aria in cui Leporello elenca le conquiste senza confini del suo padrone (“in Lamagna 231!”). Le sorelle Samdereli con un certo coraggio (e chissà quanto consapevole) e con supremo sprezzo della probabile indignazione della critica engagée, osano l’inosabile, cioè raccontare l’immigrazione turca in Germania degli anni del boom economico degli anni Sessanta-Settanta (il boom tedesco, quello turco è adesso) senza piagnistei, senza accuse di razzismo ai tedeschi, senza farci vedere il rifiuto e il rigetto da parte dei biondi teutonici del moro e scuretto e baffuto uomo anatolico, insomma aggirando il canone del film di immigrazione, che sia Il Padrino parte seconda o il pur adorabile e venerabile Rocco viscontiano. Anzi, in famiglia (quella del film, e forse anche quella della regista che in tutta evidenza ci mette parcchio di autobiografico in quello che ci fa vedere), c’è una gran felicità e un certo orgoglio nell’essere in Germania e gratitudine, ebbene sì gratitudine, per il paese che li ha accolti, mica respinti come usa adesso. Così Almanya si configura come qualcosa di diverso, anche se non la negazione, del cinema di un altro regista turco-tedesco, Fatih Akin (che, va detto, è di statura autoriale di molto superiore a quella delle pur abili e capaci sorelle Samdereli), dove l’oscillazione tra due mondi e due identità dei protagonisti danno luogo a lacerazioni profonde in forma di melodramma (La sposa turca e Ai confini del paradiso sono due film formidabili). Se vogliamo le Samdereli sono Fatih Akin depurato da complicazioni e complessità e ri-confenzionato in commedia facile. E però, vedendo Almanya, non si può, anche, non pensare a cos’era l’immigrazione in Germania ai tempi di un Fassbinder, e come lui la trattava e rappresentava (l’episodio autobiografico di Rainer Werner F. in Germania in autunno con lui a letto con l’amante turco, per l’appunto, e soprattutto quel capolavoro che è La paura mangia l’anima). Le sorelle Samdereli sono di un’altra generazione e di un’altra Germania, anche cinematografica, e quanto ci mostrano è lo specchio di una integrazione personale riuscita, un film che sa affrontare un tema complicato con leggerezza, ma che in questa operazione di depotenziamento perde qualcosa in densità e spessore. L’impressione di fronte ad Almanya è che sia azzeccato e centrato, ma non un grande film, che la sua riuscita avvenga a costo di una estrema semplificazione e dell’abbandono di ogni tentativo di profondità. Niente di male, però Almanya non ha, non avrà mai, la statura di un’opera maggiore, bisogna accontentarsi di quello che ci dà. Affresco non ponderoso, ma pur sempre affresco, della famiglia Yilmaz, da quando il capostipite Hüseyin si mosse, nei tardi anni Sessanta, dal suo villaggio anatolico verso la Germania, quando ancora per via del boom si cercava manodopera ovunque e gli immigrati non solo non venivano fermati alla frontiera e buttati fuori ma cercati dalle aziende, il che fa capire quanto le cose siano cambiate, per noi e per loro, da quei tempi lontani. Certo, i tedeschi il vizietto di marchiare i nuovi arrivati come bestiame continuavano ad averlo (certe cose non se ne vanno via da un giorno all’altro) e, come ci mostra un filmato documentario in apertura di Almanya, molti immigrati venivano denudati, messi in fila e visitati in serie dal medico per accertare non avessero terribili malattie e non portassero chissà quali virus e batteri, e poi con un penna gli segnavano addosso un numero, e son scene di fronte alle quali non si può non pensare a quanto avveniva ad Auschwitz. Il che dimostra come le sorelle Samdereli siano meno ingenue di quanto lasci trasparire in prima battuta il loro film buonista e conciliatorio, e capaci di far cadere qua e là quasi subliminalmente perfidie velenosissime. Dopo qualche mese Hüseyin torna in Turchia e carica su moglie e i tre bambini per portarseli lassù in Deutschland. Incontro-scontro con il nuovo mondo, i vicini, l’animo teutonico. La prima spesa di lei al negozio di alimentare senza sapere una parola di tdesco. I bambini che a Natale vogliono l’albero con i regali sotto, e inutilmente mamma e papà a spiegare che il Natale per loro non è festa. Stupore di fronte a quell’oggetto strano e alieno che è il crocefisso. Ma come, i tedeschi si inginocchiano e pregano di fronte a questa cosa di legno?, si stupisce e inorridisce lei da brava musulmana. Quell’uomo nudo e ferito appeso alla croce è anche l’incubo di uno dei bambini, che se lo sogna la notte come una creatura horror, con il costato sanguinolento e la corona di spine, che si stacca dai legni e si protende verso il letto a ghermirlo. Ecco, anche qui la regista e la sorella co-sceneggiatrice mostrano di essere tutt’altro che ingenue e pur in chiave di commedia vanno dritte su quella gran discussione che c’è stata, e c’è, sulle radici cristiane dell’Europa e di quanto sia giusto o meno l’uso del crocifisso negli spazi pubblici. Yasemin e Nesrin Samdereli non polemizzano, ci mancherebbe, però ci fanno capire assai bene come un oggetto simbolo della nostra cultura sia visto come una barbarie da un musulmano medio venuto dall’altra parte del Mediterraneo. Una piccola lezione di antropologia in forma di sorriso, che è tra le cose migliori di Almanya. Questo sguardo altro viene applicato ad altre abitudini tedesche, come il portarsi in giro al guinzaglio i cani e anche di dormirci assieme, cosa che a mamma appare (non ingiustamente) primitiva. Chi è il civilizzato e chi il selvaggio?, sembrano dirci garbatamente le Samdereli Sisters (anzi, alla tedesca, Schwestern). Il film comincia con Hüseyin e consorte ormai anziani e nonni, con i loro figli che hanno già figli, e con già qualche mescolanza turco-tedesca in casa (uno dei figli, il minore, quello nato in terra di Germania, ha una bionda moglie teutonica di grande acume, mentre la nipote grande e universitaria ha un boyfriend inglese: ‘almeno fosse tedesco, ma inglese!’, sospira il nonno-patriarca quando lo viene a sapere). La coppia dopo 40 anni ha ottenuto l’agognata cittadinanza e sta per ricevere il passaporto dell’amata Germania, un traguardo, anche se Hüseyin non ne è così convinto, e si sogna la notte che gli facciano l’esame da perfetto teutonico obbligandolo a mangiare, quei miscredenti, carne di porco. Oscillazione tra i due mondi e le due identità, il rischio di non essere-sentirsi né tedeschi e nemeno più turchi, insomma il ben noto e più volte raccontato conflitto interiore di tanti immigrati di prima, seconda e terza generazione. Il nipotino a scuola non capisce mai se deve giocare a pallone nella squadra dei tedeschi o dei turchi, e quando a casa lo rassicurano che lui è una cosa e l’altra sbotta: sì, ma in che squadra devo giocare? Il patriarca Hüseyin sorprende tutti, e proprio quando è diventato tedesco con tanto di certificazione e documenti, e proprio quando dall’entourage della cancelliera Merkel gli arriva l’invito a tenere un discorso a una festa ufficiale in onore dei lavoratori immigrati, annuncia all’intero ed esterrefatto clan familiare – moglie, figli, nipoti – che lui ha comprato una casa in Anatolia e che adesso si va tutti, ma proprio tutti, là a sistemarla, e che nessuno osi sgarrare restandosene in Almanya. Aereo, poi via tutti in pullmino verso il villaggio anatolico, incontrando la Turchia arcaica ma anche quella in rapida modernizzazione. Il fglio nato in Germania non sopporta il cibo locale, troppo piccante, e gli vien subito una crisi gastrointestinale, sopporta meglio la bionda moglie tedesca che è invece entusiasto del cibo (e ha ragione, i turchi sono tra i popoli che meglio sanno cucinare). Ma poi qualcosa succederà, e la commedia svolta in melodramma. Signori, preparate i fazzoletti, poiché ci si commuove come poche volte si è visto al cinema negli ultimi tempi. Il film di Yasemin Samdereli vuole essere semplice e popolare anche in questo, e non si vergogna di farci versare fiumi di lacrime. Le sorelle esagerano un po’, le due scene finali sono così ruffiane e larmoyant che bisogna tornare indietro a Incompreso e L’ultima neve di primavera per trovare qualcosa di analogo, in sala era tutto un soffiare e un rumoreggiare di fazzoletti. Ma va bene così.
P.S: Ho sempre pensato che tra tedeschi e turchi ci fosse un’affinità profonda e una irresistibile attrazione reciproca che va oltre le tante, ma superficiali e più evidenti differenze. Germania e Turchia hanno entrambe da sempre come tratto nazionale il culto dell’ordine, delle divise militari, degli apparati burocratici efficienti e una certa aspirazione imperiale. Si somigliano, respingono e attraggono. Durante la prima guerra mondiale, entrambi imperi allo sfacelo, erano alleati. Questo film, al di là del suo primo livello, cioè della storia di immigrazione che racconta, è anche l’incontro, l’incastro di due culture che si piacciono.