Magazine Arte
Nell’era della riproducibilità dell’opera d’arte, l’arte diventa arte per sé o per gli altri? E l’arte è stata mai arte per gli altri o per pochi? Questi sono gli interrogativi che Walter Benjamin ci lasciava in eredità nel XX secolo, ma l’espressione dell’estro umano del XXI secolo cosa sarà? Pura occasione di arredo o luogo di un moto dell’anima?
L’opera di Emilio Ventura risponde a pieno a questo interrogativo: c’è un non luogo dell’anima in cui tutto tace, solo una eco in lontananza che rischiara i battiti di una pendola a ricordarci che l’esistenza è scandita da un’α e un’ω. Questo non luogo ospita le inquietudini dell’Essere, dove l’incontro e la relazione tra anime culminano in ipocondrie ancestrali e paure claustrofobiche. Un non luogo come Marc Augè lo intende: quegli spazi dell’anonimato ogni giorno più numerosi e frequentati da individui simili, ma soli. Il non luogo è il contrario di una dimora, di una residenza, di un luogo nel senso comune del termine. È in questo dove che l’Essere si incontra con la Morte per dar vita ad un balletto di ombre. Laddove la bambina impara a conoscere chi l’accompagnerà per l’intero corso esistenziale, quella compagna che rifiuterà inizialmente ponendosi in conflitto con lei, combattendola, lottando contro la sua fisicità, la sua corporeità, ma che nella sua maturità accetterà, perché capace di comprendere il vero senso della vita: vivere è anche morire!...
Questo riflesso translucido della coesistenza tra un passato e un futuro è lo specchio del presente: la bambina-adulta sorridente insieme alla Morte, che le sta accanto, che ha imparato a conoscere e con la quale convive e convivrà per il resto dei suoi giorni. Nel sorriso della giovane donna c’è, ormai, la consapevolezza di aver vissuto e scoperto, almeno in parte, in che cosa consiste il vivere. Non è di certo un vivere per morire, ma un vivere per essere, per l’Essere. La complicità con la Morte è consapevole, matura. Nei lavori di Ventura c’è la necessità dell’Esserci nel mondo heideggeriano. È l’espressione, che si fa esperienza e percettibilità di qualcosa di superiore, di oltre. Qualcosa “über die line”, “oltre la linea”, oltre i confini del percettibile dove troviamo soltanto il deserto dei Tartari, un deserto esistenziale, che collima con quel non luogo dell’anima, dell’esistenza in cui si rifugiano i soggetti di Ventura, sempre in bilico tra l’essere e il non essere, tra la realtà e la farsa, tra una danza tra comparse e un’imitazione del possibile. Oltrepassare quel confine, andare oltre significherebbe probabilmente intraprendere un percorso attraverso il quale finalmente comunicare, inoltrarsi per vie impervie e irte di pericoli, ma interagire, comprendere il reale, cercare un territorio dell’aldiquà, girare le spalle all’aldilà; facendo quadrare il cerchio, riunendo l’essenza stessa dello spirito in un’azione trasformatrice e violenta, che conduca dal degrado della miseria umana all’azione, all’Essere nel mondo, nell’evoluzione naturale che oggi l’arte deve avere esprimendo, essendo espressione, votandosi ancora una volta all’esperienza come sentire, come percepire, come unica isola, unico continente raggiungibile, come unica ancora di salvezza: l’Essere per Essere.
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