Emilio Villa - Linguistica

Da Ellisse

Dopo Lunetta, Emilio Villa, l'uomo che più di tutti ha tentato di sconfiggere la maledizione babelica attraversando linguaggi moderni e remoti. Un importante testo, "vera e propria dichiarazione di poetica in versi", accompagnato da un saggio di Flavio Ermini, entrambi tratti dal libro "Parabol(ich)e dell'ultimo giorno", a cura di Enzo Campi, Le Voci della Luna - Poesia / DotCom Press, 2013, pubblicato in occasione del decennale della morte. Un volume collettivo che raccoglie opere dell'autore, e contributi critici e scritti dedicati di Daniele Bellomi, Dome Bulfaro, Giovanni Campi, Biagio Cepollaro, Tiziana Cera Rosco, Andrea Corlellessa, Enrico De Lea, Gerardo de Stefano, Marco Ercolani, Flavio Ermini, Ivan Fassio, Rita R. Florit, Giovanna Frene, Gian Paolo Guerini, Gian Ruggero Manzoni, Francesco Marotta, Giorgio Moio, Silvia Molesini, Renata Morresi, Giulia Niccolai, Jacopo Ninni, Michele Ortore, Fabio Pedone, Daniele Poletti, Davide Racca, Daniele Ventre, Lello Voce, Giuseppe Zuccarino, Enzo Campi. Insomma un libro di sicuro interesse, non solo per chi persegua una scrittura sperimentale, ma anche per quelli che nella loro scrittura cercano spunti per assumersi qualche rischio, deviando almeno un po' l'ordinario flusso della corrente.
Linguistica
Non c'è più origini. Né.                                      Né si può sapere se.
Se furono le origini e nemmeno.
   E nemmeno c'è ragione che nascano
   le origini.   Né più
   la fede,                  idolo di Amorgos!
chi dici origina le origini nel tocco nell'accento
   nel sogno mortale del necessario?
No, non c'è più origini.   No.
   Ma
   il transito provocato delle idee antiche - e degli impulsi.
E qualsivoglia ambiguo che germogli intatto
   dalle relazioni
   dalle traiettorie
   dalle radiazioni
   dalle concezioni
   luogo senza storie.
   Luogo dove tutti.
   E dove la coscienza.
   E dove il dove.
Per riconoscere l'incommensurabile semenza delle vertigini adombrate
   le giunture schioccate nei legami
   la trasparenza delle cartilagini
   il cieco sgomento dei fogliami
agricoli nelle forze
esteriori, e l'analisi fonda
incisa nel corpo dell'accento.    No.
   Non c'è più. Né origini nei rami.   né non origini.
Chi arrestava i sintagmi sazi nel sortilegio della consistenza
usava lo spirito senza rimedio nel momento indecisivo
come un compasso disadatto, non esperto, così non si poteva
agire più niente, più, ombra ferita e riferita, proiezione
senza essenza, così che speculare sul comune tedio
un gioco parve, e ogni attimo-fonema
ancora oggigiorno sfiora guerra e tempo consumato, e il peso
corrompe dell'ombra dei tramiti dell'essenza.
E codesta sarebbe.   Questa la fine concepibile:
se attraverso l'idea massima del pericolo e dell'indistinto
si curva l'anima estrema nell'attrito di idrogeno e ozono e i giorni
acerbi sommano giorni ai giorni quotidiani nell'araldica
prosodia   delle tangenze,
soffocando ogni flusso di infallibile irrealtà in:
   i verbi
   i neologismi.
Chi le braccia levava saziate di viole nel palpito assortito
oggi paragona ogni rovina paragona allo spirito
immune che popola e corruga a segmenti il nembo
delle testimonianze storiche, delle parabole nel grembo
confuso delle parrocchie e nelle larghe zone
di caccia e pesca e d'altre energiche mansioni culturali.
E non per questo celebro coscientemente il germe
   sepolto, al di là,
e celebro l'etimo corroso dalle iridi foniche,
   l'etimo immaturo,
   l'etimo colto,
   l'etimo negli spazi avariati,
   nei minimi intervalli,
   nelle congiunzioni,    l'etimo della solitudine posseduta,
   l'etimo nella sete
e nella sete idonea alle fossili rocce illuminate
   dalle fosforescenze idumee, idolo di Amorgos!
Flavio Ermini
La sostanza originaria dell'alba
«celebro coscientemente il germe sepolto» scrive Emilio Villa in una delle sue poesie più significative, Linguistica, vera e propria dichiarazione di poetica in versi, inclusa nei testi raccolti in E ma dopo, pubblicati nel 1950, ma probabilmente scritti, come le poesie di Oramai (1947), tra il 1936 e il 1945.
«celebro coscientemente il germe sepolto» scrive Emilio Villa. Gli fa eco Empedocle quando racconta l'irruzione dolorosa e felice delle origini nella memoria: «Fui un tempo fanciullo e fanciulla, arbusto / e uccello e muto pesce nelle onde salate».
Dal «germe sepolto» giunge una spinta polimorfica. Sarà consentito alla parola poetica — la parola più vicina alla parola originaria — di risalire fino al principio? fino alle «fossili rocce» e ai «giorni acerbi»?
Ecco la questione che viene posta da Villa in tanta parte della sua opera,  ma - nello specifico — soprattutto in Linguistica, dove la questione viene approfondita con una nuova domanda: fino a dove ci porterà questo risalire insistito verso le origini?
La parola più vicina al principio — la parola insita nel pensiero della poesia — segnala che tutto è intorno a noi radicato in una «incommensurabile semenza». Tale semenza, per quanto non possa essere nominata direttamente, s'incide nelle figure che non smettono di emergere dal profondo, da gesti ed eventi che non cessano di affiorare dai tempi immemoriali. Le origini vanno originate? domanda Villa. Ovvero: «chi dici origina le origini nel tocco nell'accento / nel sogno mortale del necessario?»
Tra figure, gesti ed eventi, grazie all'etimo, l'abisso primordiale si schiude. Poi decisamente si apre e si spalanca. L'accadere scaturisce, colpo dopo colpo, da un'origine che non è collocabile in nessun ordine. Giungeremo mai alle origini delle origini, alle archai?
Emilio Villa registra che, in questo moto di avvicinamento, a un certo punto la parola ci abbandona. E così il pensiero. E un dato di fatto: il greco omerico dell'Iliade e l'ebraico biblico — per fare due esempi — nonsono sufficientemente arcaici. Probabilmente è necessario che le parole si facciano cose, per dare alle cose parola, travalicando le leggi generali della lingua.
L'origine di cui Villa ci parla (il «luogo senza storie. / Luogo dove tutti. / E dove la coscienza. / E dove il dove») sfugge alle indagini conoscitive, sfida l'etimo, sia quello «immaturo» sia quello «corroso». È inequivocabile Villa: ci indica che la lingua originaria, unica, prima - così vicina al limite del silenzio — è, sì, attingibile, ma fino a un certo punto; perché poi vanno fatti i conti con il caos.
«Non c'è più origini» insiste Villa. «E nemmeno c'è ragione che nascano ». Di ragione, a dire il vero, non ce n'è. La ragione esiste solo a frammenti su questo stretto sentiero. Ma «al di là» della ragione, più oltre, c'è dell'altro?
Abbiamo sempre pensato l'inizio come il passaggio dal caos alla forma. Ma l'inizio non ha molto a che fare con le sculture cicladiche del 2700 a.C. Le loro braccia conserte segnalano ben altro.
Amorgos registra ben altro, ribadisce Villa. Registra che il vero inizio è caos; il caos che precede le realizzazioni plastiche dei primordi, il caos che può rivelarsi indomabile, e che ancora oggi è presente nel sottosuolodella storia, così come osserva Nietzsche.
Quel caos giunge dal sottosuolo della storia a dirci che l'ordine estetico, lungi dal segnalare l'inizio, giunge a chiuderne l'esperienza. Ecco cosa segnalano quelle braccia conserte...
Villa si spinge nella direzione di un passato remotissimo, prima della costituzione di una forma. Procede in senso filogenetico e in senso ontogenetico. Nel suo moto a ritroso, un retrocedere che tanto assomiglia a un costante avanzare, non trascura né le origini del linguaggio — permettersi su tracce pre-linguistiche -, né la dimensione del rimosso dalla vita cosciente. Si affida a parole e a suoni inaudibili per dire qualcosa del «ben altro» delle origini o, quanto meno, per dire se sia possibile farlo. Nel suo immergersi nell'archeologia dell'espressione, Villa si affida all'energia che sembrano tuttora emanare le forme plastiche dei primordi, ad Amorgos.
E annota: nel caos arcaico c'è uno stato d'immediatezza che viene con una certa violenza interrotto dal valore consapevole della parola e dell'estetica. Non hanno luogo nella parola e nell'estetica le origini. Quiil pericolo è già alle spalle, qui l'indistinto trova forma, qui il soggetto si fa avanti con tutta la sua supponenza. L'origine cui Villa si rivolge richiede di accostarsi a uno stato di nonapertura, a un'ingenuità e a un'innocenza che non è ancora personale. È come se Villa dicesse al «cieco sgomento dei fogliami»: una volta ero come voi oggi: natura, priva di volontà soggettiva, colma di energia indeterminata.
L'«idea massima del pericolo» è insita nella ricerca di Villa quando ci rivela che l'esordio della vita non costituisce un inizio puro, ma dietro di esso vi è qualcosa di più remoto. In quell'indistinto — cui Anassimandro dà il nome di Apeìron — c'è l'apertura di tutto l'essere, c'è l'unione con le forze che reggono il mondo.
Sarà proprio tra l'Apeiron e l'inizio della storia che Vico porrà un'urna cineraria.
Quell'urna, ci avverte Villa, non appartiene all'indistinto, né all'esordio della vita (ovvero non appartiene al caos arcaico, né appartiene a noi). Non appartiene peraltro alla Storia perché ne è l'atto fondativo. Non per caso lì, proprio su quel confine, al margine estremo dell' ingens sylva, Hegel inscrive la lotta per la vita e per la morte.
Nasciamo in attesa di una voce festiva, di un canto che non ci sarà mai dato di udire nella sua compiutezza. Davanti a quell'urna cineraria narriamo con parole umane, troppo umane, ciò che è prima e oltre l'umano; narriamo ciò che è prima di ogni narrazione; narriamo il mistero della notte albale.
Non si va da nessuna parte con le «testimonianze storiche» ci avverte Villa. Se vogliamo che «germogli intatto» lo spirito delle origini, è necessario andare oltre l'urna cineraria, a ritroso, risalendo la caduta, verso l'indistinto e il caos arcaico.
L'uomo, ci ricorda Benjamin, è stato fatto di terra. Solo in seguito gli è stato "soffiato" il dono della lingua. Ed è proprio a quella terra che bisogna risalire. Si giunge fino all'urna cineraria, lì dove inizia l'ingens sylva, fino all'idioma primordiale, edenico. Ma, da lì in poi, per incamminarsi nella "terra" della quale siamo fatti, è necessaria una lingua nuova, preverbale.
In quanto spazio antecedente, su questo cammino è di casa l'ospite di Zimmer, con la sua opera solitaria, sottratta all'imperialismo dell'io. Anche la lingua delle origini (forse un canto, come suggerisce Vico, o ungrido, come sembra suggerire Villa) è umana, troppo umana, ma è l'unica che possiamo prestare alle cose, per rendere udibile la loro lingua. Senza questa funzione la lingua umana non avrebbe senso.
La poesia non è purezza. La purezza sta nelle braccia conserte delle sculture di Amorgos. Quelle braccia sbarrano il passo a chi desidera attingere all'animalità infantile e alla sua terra.
Ciò sembra avvenire risalendo la caduta fino allo «spirito immune» dall'uomo, dal suo rovinoso apparire sulla terra.
Ciò sembra avvenire nella scrittura di Villa in una forma che include il termine iniziale e il termine finale dell'autorivelazione dell'essere, una forma che ha tanti elementi in comune con la filosofia prima, ovvero con quella ricerca originaria e radicale, assolutamente priva di presupposti, anzi pronta a fondare qualsiasi presupposto. La ragione stessa della poesia sta nella facoltà di ritornare a noi dall'autorivelazione esperita nell'origine.
Il «transito», come lo chiama Villa, è stato compiuto da Holderlin con successo e con dolore.
E con successo e con dolore Villa compirà in Linguistica il viaggio all'origine della notte, là dove la luce dell'essere ha per una volta illuminato il confine tra la Terra e l'Antiterra. Ed è consapevole Villa che l'origine della notte è anche il principio della luce. Un «transito» non più concepito secondo le logiche dell'asserzione categoriale, ma fondato sul rifiuto di ogni estetica, per quanto amabile sia.
Villa si apre, nel «transito», al pathos dell'evento dell'essere.
Il «transito» nell'estraneo, nell'alterità, è il passo indietro del pensiero rappresentativo-calcolante fino al passaggio dall'inizio all'altro inizio, ovvero al passaggio dal primo inizio al principio consapevole.
«Non c'è più origini. Né / Né si può sapere. / Se furono le origini e nemmeno» ci ripete Villa.
Le prime origini il vivente pre-linguistico (il semplicemente vivente) le ha vissute senza consapevolezza. Solo ora l'originario può essere pensato originariamente; solo ora, come secondo inizio, grazie alla parola dell'«indistinto» - propria del caos principiale - e «attraverso l'idea massima del pericolo». Fino a cogliere il permanere dell'essere nella nitidezza indivisa del tutto. Solo ora l'essere vivente dotato di parola può frequentare «coscientemente il germe». Ma lo può fare unicamente inoltrandosi nella «terra» nominata da Benjamin.
Il principio è ciò che avrebbe potuto o dovuto darsi, e che solo ora può costituirsi nella sua pienezza come principio cosciente.
Ed è proprio sul principio cosciente che, arrischiarne, Villa saggia la dicibilità di un dire che sia pronunciabile oggi, ma che abbia in qualche modo radici oltre Amorgos: nella sostanza originaria dell'alba.
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Per le notizie bibliografiche su Villa e per altri testi è utile consultare Internet, ad esempio, tra i molti link,  QUI oppure QUI.

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