Due settimane circa di lavoro intenso e più gravoso del previsto.
Nulla è peggio per un traduttore della revisione di un testo che un altro ha già studiato, filtrato, interpretato.
Non ho la minima intenzione di dilungarmi in riflessioni, forse tediose per qualcuno, sulla “filosofia della traduzione”; uno stuolo di linguisti, semiologi, critici si sono ampiamente espressi sull’argomento.
Mi limito solo a osservare che il traduttore è prima di tutto un lettore, con l’importanza che ha per me quest’ultimo nel ruolo della “ri-creazione” dell’opera letteraria; quindi ognuno ha la propria sensibilità linguistica e una personale intuizione creativa. L’approccio a un testo non sarà mai, o quasi mai, uguale. Inoltre io vivo ogni intervento di riassetto durante la revisione come un rilievo all’operato di chi mi ha preceduta.
In sintesi, non mi piace e potrei definire queste due settimane un periodo d’impegno faticoso; sarebbe stato decisamente meglio tradurre il testo ex novo …
Comunque, lavoro terminato.
Mi rimane sempre una perplessità di fondo, per cui invio virtualmente a egregi editori e spettabili aziende l’invito a scegliersi, fin dall’inizio, collaboratori di cui si fidano.
Ma, guardiamo il lato positivo della vicenda.
Ho avuto se non altro l’opportunità di rispolverare alcune pagine del romanzo Madame Bovary di Flaubert.
Letto e riletto negli anni, oggetto di numerose lezioni ai miei studenti. Insomma, non posso certo dire di non conoscere questo libro di cui non intendo affatto proporre l’ennesimo commento.
Vorrei parlare della donna Emma perché ogni volta mi sento coinvolta nella sua avventura e mi arrabbio nel constatare quanto talora un individuo possa essere per natura un perdente.
E ogni volta mi dico: questa è proprio la donna che non avrei mai voluto essere e che non desidero assolutamente diventare.
Credo che tutti conoscano la trama del romanzo.
Emma Rouault, stanca di un’esistenza piatta vissuta in una cascina di campagna, sposa Charles Bovary che, secondo le sue fantasie, le avrebbe fatto fare un salto di qualità. Si sposta in città (Tostes, Yonville). Ora è Emma Bovary, la moglie del medico, quindi non una persona qualunque. Suo marito la adora. Nasce la loro bambina, Berthe. Tuttavia Charles non è l’uomo che si aspettava ed Emma inizia poco a poco a stancarsi della routine di moglie e di madre. Due amanti, Léon e Rodolphe, sembrano darle una sorta di seconda vita. Le due liaisons naufragano. Persa in un vortice di acquisti scriteriati per migliorare il suo guardaroba e il suo aspetto, avvolta in una spirale di menzogne, si indebita sempre di più finché, non riuscendo a reggere il peso della situazione, si uccide con l’arsenico.
Storia banale, suicidio a parte: matrimonio insoddisfacente e conseguenti vicende sentimentali parallele.
Ça arrive! Capita!
Non è certo questo il motivo della mia personale avversione nei confronti di Emma.
Non sopporto la sua mediocrità, la sua incapacità di fare, lei, un salto di qualità, dentro di sé anziché costruirsi attorno artificiosamente una parvenza di “felicità”.
Emma vive come se fosse perennemente in un film, in preda a una costante dicotomia tra reale e ideale, o meglio tra realtà e finzione, binomio che la caratterizza più efficacemente.
Posa, sempre. Durante la cerimonia delle nozze, nella famosa festa al castello della Vaubyessard, persino quando sta per morire.
Un’attricetta di scarso valore inoltre: recitare un ruolo, anche nella vita reale, per chi ne è capace, presuppone una discreta dose di furbizia, scaltrezza, anche di intelligenza. Sovrapporre un ideale a un reale deludente implica grandi aspirazioni e apertura mentale.
Ebbene, Emma non è nulla di tutto questo.
Sempre in attesa di un appagamento inaccessibile, s’identifica con modelli ideali di donna, immagina relazioni sentimentali da romanzo rosa, sogna “un’esistenza al di sopra delle altre, fra cielo e terra, in piena bufera, qualcosa di sublime.”
Conosceva troppo bene la campagna; sapeva il belato delle greggi, i latticini, gli aratri. Abituata alle visioni tranquille, era attratta da quelle drammatiche. Non amava il mare se non per le sue tempeste e il verde solo se cresceva fra le rovine. Bisognava che dalle cose potesse trarre qualche vantaggio personale; rifiutava come inutile tutto quanto non contribuisse all’ardore immediato del suo cuore, – più sentimentale che artista com’era di temperamento, in cerca di emozioni e non di paesaggi
Prospettiva illusoria poiché le persone attorno a lei sono individui concreti; alcuni di un realismo quasi cinico, altri di scarsissimo spessore, tutti comunque con i piedi ben saldi a terra.
Quanto alla residua umanità, era sfumata, indeterminata e come non esistente. Del resto, più le cose erano vicine, più il suo pensiero se ne distoglieva. Tutto quanto le stava immediatamente intorno, campagna noiosa, piccoli borghesi imbecilli e mediocrità dell’esistenza le sembravano un’eccezione nel mondo, una combinazione accidentale in cui proprio lei sarebbe incappata, mentre al di là si stendeva a perdita d’occhio l’immensa contrada delle felicità e delle passioni. Nel suo desiderio confondeva le sensualità del lusso e le gioie del cuore, l’eleganza dei costumi e le delicatezze del sentimento.
Una donna priva di capacità di discernimento.
Nemmeno la bassezza umana da cui è circondata, che potrebbe essere per i più sensibili causa del sentimento di inadeguatezza e un’attenuante alla sua fuga mentale nel sogno, in realtà non provoca come reazione alcuna scelta concreta.
Jennifer Jones in una scena del film Madame Bovary (1949) di Vincente Minnelli
La sua idea di esistenza è filtrata dall’ambiente in cui è cresciuta da adolescente e dalle letture sulle quali si è formata la sua testolina.
Suo padre decide di farla studiare in un convento, consuetudine per le famiglie borghesi dell’epoca.
Letture sacre, preghiera, libri “istituzionali” come Le Génie du Christianisme di Chateaubriand, educazione da “brava ragazza” destinata a essere “buona sposa” e “buona madre”. Di nascosto divora tuttavia i romanzi romantici allora di moda, proibiti dalle suore; lei e le altre “educande” riescono ad averli dalla donna che si occupa della biancheria, il loro tramite con il mondo esterno.
C’erano amori a bizzeffe, amanti, innamorate, dame perseguitate, [ … ], foreste tenebrose, turbamenti del cuore, giuramenti, singulti, lacrime e baci, barche al chiaro di luna, usignoli nei boschi, cavalieri audaci come leoni, soavi come agnelli, virtuosi oltre il credibile, sempre eleganti e lacrimosi come urne. Per sei mesi, a quindici anni, Emma si sporcò le dita con quella polvere da vecchio gabinetto di lettura. Con Walter Scott, più tardi, s’invaghì di cose storiche, sognò forzieri, corpi di guardia e menestrelli. Avrebbe voluto vivere in qualche antico maniero, come quelle castellane dal lungo corsetto che sotto le ogive passavano i giorni con il gomito sul davanzale e il mento appoggiato sulla mano a guardare se dal fondo della campagna spuntasse un cavaliere al galoppo, con la piuma bianca e un cavallo nero
È tutta finzione, ma Emma crede che sia possibile e lo crederà sempre.
Come se una giovane donna di oggi plasmasse la propria vita sull’universo limitato e patinato di una soap opera, un Beautiful qualsiasi.
Prima di sposarsi Emma aveva creduto di essere innamorata; ma la felicità che sarebbe dovuta scaturire da quell’amore non era venuta, certo doveva essersi sbagliata, pensava. E cercava di scoprire che cosa in realtà s’intendesse nella vita con le parole felicità, passione ed ebbrezza che nei libri le erano parse così belle.
Suo marito Charles non regge ovviamente il confronto con i seducenti “cavalieri” di cui sopra ed Emma lo trova insopportabile.
La conversazione di Charles era piatta come un marciapiede, e vi sfilavano le idee più comuni, nel loro aspetto più dimesso, senza alcun lievito di emozione, di umorismo o fantasia. Non gli era mai venuta la curiosità, diceva, di andare a teatro a vedere gli attori di Parigi, al tempo in cui abitava a Rouen. Non sapeva né nuotare né tirare di scherma né usare la pistola, e nemmeno riuscì, un giorno, a spiegarle un termine di equitazione in cui si era imbattuta in un romanzo.
Ma un uomo non doveva sapere tutto, eccellere nelle più varie attività, iniziare la moglie ai dinamismi della passione, alle raffinatezze della vita, a ogni genere di mistero? Invece lui non insegnava niente. Niente sapeva e niente sperava. La credeva felice; e lei provava rancore per quella sua calma così solida, per quella sua greve serenità, per quella felicità che era lei a dispensargli“Perché, Dio mio, mi sono sposata?″
Si domandava se non ci sarebbe stato modo di incontrare un uomo diverso, per diverse combinazioni del caso; e si sforzava d’immaginare quali sarebbero potuti essere quegli avvenimenti non avvenuti, quel tipo diverso di vita, quel marito che non conosceva. Non tutti, infatti, erano come il suo. Poteva trattarsi di un uomo bello, brillante, distinto, attraente come dovevano essere i mariti che le sue antiche compagne di convento avevano trovato. Che cosa facevano ora? In città, con il frastuono delle strade, il brusio dei teatri e le rutilanti sale da ballo, conducevano esistenze da dilatare il cuore e far fiorire i sensi. Ma lei, la sua vita era fredda come una soffitta con la finestrella a Nord, e la noia, ragno silenzioso, tesseva la sua tela nell’ombra, in ogni angolo del suo cuore
Léon, che sa dire espressioni “poetiche” e che Emma trova “charmant” la turba.
Era innamorata di Léon e cercava la solitudine per potersi abbandonare al piacere di evocarne l’immagine. La vista della sua persona turbava la voluttà di quella meditazione. Emma palpitava al rumore dei suoi passi. Ma quando lui era presente l’emozione si spegneva, lasciandole solo un immenso stupore che finiva in tristezza
Il solito banale innamoramento dell’idea dell’amore.
L’incontro con Rodolphe è veramente un colpo di fulmine, per Emma almeno.
Uomo affascinante, sa come trattare le donne, capisce subito il punto debole di Madame Bovary e le parla con frasi romantiche riciclando cliché letterari … lei non se ne accorge nemmeno!
Allora parlarono della mediocrità provinciale, delle vite che riusciva a soffocare, delle illusioni che faceva svanire.
“Per questo – diceva Rodolphe, – io sto sprofondando in una tristezza …”
“Voi! – fece lei stupita. – E io che vi credevo così spensierato.”
“Ah, sì, in apparenza, perché in mezzo alla gente mi so mettere sul viso una maschera beffarda; eppure quante volte alla vista di un cimitero, al chiaro di luna, mi sono domandato se son sarebbe meglio per me andare a raggiungere quelli che dormono laggiù …”
“Oh! E i vostri amici? – disse lei – Non direte sul serio.”
“I miei amici? Quali amici? Ne ho forse? Chi si preoccupa per me?”
[ …]
“Sì, tante cose mi sono mancate! Sempre solo! Ah, se avessi avuto uno scopo nella vita, se avessi incontrato un affetto, se avessi trovato qualcuno … Ah, come avrei speso tutta l’energia di cui sono capace, come avrei superato, travolto qualsiasi cosa!”
Mentre parla, spesso lui la guarda di soppiatto e aggiunge gesti teatrali alle frasi, come passarsi la mano sul viso quasi in preda a un mancamento e lasciarla ricadere distrattamente in quella di Emma.
Uno diventa oggetto del desiderio dell’altro, in seguito appagato. Rodolphe ha la sua preda, Emma il suo “bel tenebroso”. Per poco, come con Léon.
Siamo in presenza di una donna che tenta di colmare il vuoto di un’esistenza in cui si sente soffocare. È evidente.
Ma come lo fa?
Immergendosi in sentimenti fasulli, in una visione distorta del reale che le fa credere vero ciò che non lo è, in una deformazione della natura delle cose e del loro autentico valore, in una prolungata menzogna anche nei confronti di se stessa.
Se i cliché letterari di cui è impregnata la sua mente determinano per sempre la sua concezione della vita, la festa danzante al Castello della Vaubyessard cui è invitata appare ai suoi occhi come la conferma che quel mondo di dame, cavalieri, baciamano, abiti svolazzanti, lumi di candela, valzer travolgenti esiste davvero.
il ballo al Castello della Vaubeyssard
Scena del film Madame Bovary (1991) di Claude Chabrol con Isabelle Huppert
La vive come un vero e proprio evento: le danze sono sfarzose, il castello meraviglioso … se non fosse che si tratta invece di una festa abituale per i nobili di un piccolo castello di provincia.
Una donna con scarsa capacità di valutazione.
Vi pare infine normale che nei momenti di atroce sofferenza provocati dall’arsenico si possa chiedere uno specchio?
Ed ecco che lei prese a volgere intorno lo sguardo, lentamente, come chi si ridesti da un sogno. Con voce chiara chiese il suo specchio e vi rimase china sopra un bel po’, finché grosse lacrime le scesero dagli occhi. Allora con un sospiro rovesciò il capo e ricadde sul guanciale.
quasi a voler verificare se stesse morendo come le eroine dei romanzi tanto amati
Si spiava con curiosità, per capire se soffriva. Ma no! Ancora nulla. [ …]
“Ah, è ben poca cosa, la morte! – pensava. – Mi addormenterò, e tutto sarà finito.”
Il suo malessere è la noia in cui lei si crogiola: non si adopera per salvare il suo matrimonio, non ha il coraggio di abbandonare il marito e di ricostruirsi una vita con un altro uomo pur desiderandolo e pur avendone l’occasione, con Léon ad esempio.
Non è nemmeno una buona madre.
Mai sufficientemente lucida per capire che il mondo tanto agognato non esiste, se non nella sua mente o nella finzione narrativa, Emma è mediocre anche nei sogni ed è per me il simbolo del fallimento di una donna e di un modo di approcciare la vita.
Esistono tesi contrarie che salvano un personaggio che ho letteralmente distrutto. Ne sono consapevole, ma questa è la mia opinione e, come tale, opinabile. Prontissima a discuterne.
Resta comunque un fatto incontestabile: Madame Bovary è un capolavoro per stile, composizione, struttura narrativa e chi avesse la possibilità di leggerlo in lingua originale se ne renderebbe immediatamente conto. Inoltre, Flaubert ha creato Emma, questa Emma, non per caso; aveva i suoi buoni motivi, letterari intendo.
Vorrei invitare i pochi che non l’avessero ancora fatto a sfogliare con attenzione le pagine di questo libro, a compensare la lettura forse svogliata degli anni delle scuole superiori … cercando di non lasciarsi influenzare dal mio severo “ritratto di signora”.
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