di Iannozzi Giuseppe
A occhio non aveva niente che non andasse. Esso era uno dei tanti. Il paese n’era pieno. Troppo.
Fummo a dieci centimetri di distanza l’uno dall’altro. Potevo sentire il suo alito, puzzolente di couscous, di carne macerata. Ne aveva ancora dei pezzetti infilati fra le commessure dei denti.
Un sorriso largo e bianco, più dell’avorio. Le nari erano invece orrende a vedersi, dilatate: pareva non riuscisse a respirare bene. Gli occhi erano grossi come due uova di piccione, iniettati di sangue, spiritati, e sulla fronte sottili rivoli di sudore tessevano una ragnatela: compresi che aveva la scimmia, e che, dopotutto, non era normale però rimaneva uno dei tanti.
Mi parlò, con calma studiata. Doveva essersi preparato il discorso prima.
Cercava di tenere la calma, e ci riusciva discretamente. A tradirlo però gli occhi la fronte e le mani chiuse a pugno lungo in fianchi. Quei pugni neri come il carbone minacciavano più degl’occhi che invece riposavano dentro al cranio perfettamente rasato a zero.
Gli dissi che non avevo spicci.
Fu allora che i suoi pugni scattarono. Mi presero in pieno volto.
Nel breve tempo d’un lampo davanti agl’occhi m’apparve la morte, nera e straniera: i miei sogni, quelli della notte appena passata insieme alla mia ragazza e quelli ad occhi aperti che si fanno mentre si cammina per strada senza una meta precisa, tutti mi passarono davanti uguali a una pellicola sgranata prossima a spezzarsi.
Cercai di rialzarmi nonostante il dolore pulsante alle tempie che me le trapanava.
Caracollai e caddi sul sedere.
Prima che potessi rendermene conto soffocai. Un calcio mi aveva raggiunto al petto, e poi un altro alla schiena e un altro, in rapida successione.
Dovevo avere almeno un paio di costole rotte, come minimo, e una, poco ma sicuro, doveva aver perforato il polmone.
La vista mi si annebbiò.
Potevo vedere la sua faccia. Non c’era odio. Io perlomeno non ce lo vidi in quel frangente, né scorsi segno alcuno di altro umano sentimento. Non era lì ad ammazzarmi per dirsi assassino nichilista mercenario o rivoluzionario. Semplicemente mi stava facendo fuori perché non avevo spicci da dargli: puro istinto animale, enfatizzato dalla scimmia. Voglio dire: esso era un animale che si accaniva contro un altro animale, io.
Non ripresi mai conoscenza.
Mi svegliai, se così si può dire, ch’ero già morto da un pezzo.
L’obitorio è un posto freddo.
Per un momento temetti d’essere finito sul serio all’inferno o in purgatorio. E invece no.
Morendo non intravidi nessuna luce bianca.
Mi spensi e basta.
E adesso sono morto, spacciato, un corpo freddo più del marmo.
Mi ci volle poco a realizzare che non esisteva alcun paradiso né nient’altro di simile.
Ero lì perché qualcuno venisse a riconoscermi, poi sarei stato inumato e il mio cadavere sarebbe diventato albergo per vermi e scarafaggi.
Non ci sarebbe stato espianto di organi: non ho mai firmato alcuna liberatoria. Perché qualcuno dovrebbe smontarmi come un’auto? Sempre stato contrario. Non mi sono mai pensato come una macchina che quando non va più bene si cerca di vendere quei pezzi che possono ancora andare per rimontarli su altre carrozzerie. Mai stato così idiota… generoso.
Fa freddo. Dev’essere pieno di cadaveri questo posto, d’altronde è per questo che l’hanno tirato su. Un obitorio è un po’ come un cesso, alla fine scappa a tutti. Puoi resistere poco o a lungo, ma alla fine non c’è scampo. Fossi vivo e vegeto, a una battuta così morirei dalle risate.
Il passato è passato. Non c’è niente da fare.
Adesso sono qui, è questo il mio presente, seppur breve.
Esisto?
Non penso. Ci sono ancora dei pensieri, delle debolissime reazioni chimiche ed elettriche nel mio cervello, ma non sufficienti ad essere registrate.
Sono morto. Non pensavo che mi potesse accadere, non così presto.
Chissà se poi quel negro l’ha beccato la polizia! Non sono ottimista. Un negro, per giunta drogato, non è al centro degl’interessi della comunità.
Sarò già finito nella Cronaca Nera, in un trafiletto dove un anonimo giornalista che si firma solo con le iniziali spiega che in Via Milano, in pieno centro, in mattinata è stato ritrovato il cadavere d’un maschio bianco. Quasi sicuramente scriverà che io, il cadavere, avevo sempre avuto una vita tranquilla, fedina penale pulita più del culetto d’un neonato, una persona a modo sempre affabile con tutti, mai un bisticcio, nessun rapporto ambiguo, insomma il ritratto del perfetto borghese. Forse i miei vicini diranno parole buone nei miei confronti, di convenienza, forse no. Forse manifesteranno la loro finta rabbia lungo le strade della città armati di urla e di striscioni con su scritto: “Più sicurezza per i cittadini. No alla delinquenza.”
Mi chiedo quanti di questi cadaveri hanno ancora un qualche rimasuglio di pensiero nella scatola cranica. Sarà divertente scoprire che anche l’ultimo pensiero si spegne per sempre, e addio.
Per il momento cerco di non pensarci: quando sarà il momento dell’ultimo pensiero, allora… per il momento meglio pensare ad altro. Peccato non potersi muovere: non posso sgranchirmi neanche le dita dei piedi. Mi prudono e poi li sento così freddi. Non c’è rispetto per chi diventa un cadavere, proprio nessun rispetto.
La mia ragazza, mi piangerà? Dovevamo sposarci. Era stato fissato per il prossimo anno il matrimonio. Non avremmo fatto le cose in grande. Lei parlava già di volere un figlio. O anche due. Io glissavo sempre quando prendeva l’argomento: una nausea mi prendeva, come quella di Sartre! Per il resto andavamo d’amore e d’accordo, tanto più che io non gliel’ho mai detto chiaramente ch’ero contrario alla prole. Sarebbe stato un bel matrimonio, lei in bianco, io con un bel vestito nero e una camicia di seta bianca coi gemelli ai polsi. Adesso le toccherà di trovarsi un altro bravo ragazzo se vuol proprio averli quei figli.
Ricordo mio padre: non amava né rispettava la mamma. La mamma lo tradiva: dopo aver scoperto che il marito se la faceva un giorno con una e quello appresso con un’altra, pure lei aveva preso il vizio di ficcarsi nei letti altrui. Andarono avanti così sin verso i cinquanta, poi divennero troppi vecchi per chiunque, nessuno li voleva più. A cinquant’anni, dopo trenta anni di matrimonio, stavano ancora insieme. Sapevano tutto, dei loro tradimenti soprattutto. Cominciarono a provare un po’ di affetto l’uno per l’altra. Non amore. Col tempo non è poi assurdo pensare che si sarebbero pure innamorati, ma il destino è stato infido con loro. Un incidente automobilistico ha fatto fuori la loro seconda vita evitandogli così il disturbo d’arrivare alla vecchiaia. E’ incredibile quanta gente muore così, per colpa d’un ubriaco alla guida o d’una strada troppo pericolosa con la neve. Non mi piangeranno: almeno questa noia gliel’ho risparmiata ai miei vecchi.
E’ un vero peccato, non si può comunicare con nessuno. Questi sono gli ultimi spiccioli di vita, che nemmeno la medicina sa riconoscere, e non c’è un cane con cui condividerli.
Ce l’aveva un motivo per ammazzarmi a quel modo quel negro?
Gliel’avevo detto che non avevo spicci né altro con me. Ma quello non aveva orecchi. L’istinto d’ammazzare l’ha preso e l’ha sfogato su di me.
Questa è sfiga. Fossi stato almeno razzista. E invece, in vita mia mai che mi sia interessato di questioni razziali o che abbia parteggiato per qualche fazione politica. Mai.
Ma ora che lo so d’essere spacciato un pensiero mi sta spaccando letteralmente il cervello in due: ma quel diavolo d’un negro doveva proprio accanirsi su di me? Chi li ha fatti entrare tutti questi negri nel mio Paese, e perché?
Ecco, me ne andrò così: senza sapere perché il mio Paese m’ha assassinato per mano d’un negro drogato. Fosse stato un compaesano a farmi fuori ci sarei stato male lo stesso, ma per mano straniera, porco giuda!, non è ammissibile. Sì, adesso mi scopro razzista. E’ troppo tardi. Sono le ultime deboli reazioni elettriche del mio cervello.
Sono in due.
Li sento.
Le loro voci ovattate.
Stanno portando dentro qualcun altro. Una giovane, mi par di capire.
Due romeni, forse tre, non si sa bene, l’hanno prima violentata, poi le hanno preso i pochi euri che aveva nella borsetta e le hanno stampato il cric in faccia. L’hanno creduta morta e l’hanno fatta rotolare giù, lungo una scarpata. Ma non era morta, non del tutto. Qualcuno ha visto il corpo e ha chiamato la polizia che a sua volta ha chiamato l’ambulanza: in ospedale ci è arrivata in coma profondo, emorragia cerebrale. Hanno provato ad allentare la pressione del sangue: il neurochirurgo le ha asportato parte della calotta cranica. Sembrava che ce la potesse fare, ma dopo poche ore un’altra emorragia e un’altra operazione. Condizioni critiche, nemmeno un miracolo! Dopo poche ore il suo cuore ha cessato di battere. Chi l’ha portata dentro dice che i genitori sono disperati, che non si danno pace, il padre soprattutto piange la sua principessa: ha promesso sulla figlia morta che se la giustizia non avesse fatto presto giustizia se la sarebbe fatta con le sue mani, perché questo non è più un Paese ma una sentina di merda piena fino all’orlo. Non è per il perdono, non sa cosa significhi, non vuole… non può perdonare quello che hanno fatto alla sua principessa. Non aveva ancora diciotto anni. Porco dio! Non aveva ancora cominciato a vivere sul serio e le hanno fatto una cosa così orribile. No, non ne vuole che sapere di perdonare: lui sarà in prima fila, li farà secchi con le sue mani, almeno questo lo può fare per la sua principessa. “Non lo fermeranno”, dice uno di quelli che ha portato il cadavere: “Ce l’ha scritto sulla fronte che li vuole stecchiti. Non lo fermeranno. Poi magari si sparerà un colpo. Ma non ora. Ha la sua vendetta da portare avanti.” E quell’altro: “Credi che lo farà veramente? Lo dicono tutti quelli che gli capita una tragedia così. Poi piangono davanti ai tribunali e morta lì.” Ma il compagno non è della stessa opinione: “Questo qui è diverso. Non è un uno tutto pizza e mandolino, è un americano che ha sposato una italiana. Quello li fa fuori, te lo dico io.”
Le voci si fanno sempre più distanti.
Credo proprio che sto per spegnermi del tutto.
Mi piacerebbe davvero sapere se poi quell’americano li farà fuori quei bastardi che gl’hanno portato via la sua principessa. Prego che li faccia fuori.
Mi sto spegnendo.
Nessuna luce bianca.
Niente di niente.
Quando si muore si muore.
Ma io prego che quel padre li faccia fuori quei bastardi. Prego, anche se non c’è nessuno in cielo né nelle viscere della terra. Prego perché il sangue sia lavato con altro sangue.
Adesso lo so con assoluta certezza: la morte è la fine di tutto.
L’unica giustizia che l’uomo può farsi è quando è in vita.
Adesso che ci penso ho lasciato un po’ di conti in sospeso. Nessuno li chiuderà per me.
Sono stato uno stupido su tutta la linea. A quel cazzo di negro gl’avrei dovuto tirare un calcio nelle palle, no, meglio due, uno dietro l’altro. Dicono che ce l’hanno più grosso dei bianchi, quindi il dolore lo avvertono in misura minore. Avrei dovuto tirargli due calci forti e in rapida successione. Non avrei dovuto lasciargli il tempo d’aprire bocca. Il suo alito, puzzolente di couscous, di carne macerata, non avrebbe dovuto mai sfiorare il mio olfatto.
Ho sbagliato.
Nessuna luce.
Niente di niente.
Solo il labile filo dei miei pensieri. Dopo c’è il niente. Si nasce da un ventre materno, si muore per diventare parte integrante del niente che è sempre esistito da prima dell’uomo e di qualsiasi dio pensato immaginato, costruito a nostra immagine e somiglianza.
Dovrei essere terrorizzato: ma non me lo posso permettere. E poi non servirebbe. Forse lo sono terrorizzato, ma il corpo morto non ne accusa i sintomi. Sono sol più un filo di pensiero che si sta per estinguere, una miccia che non farà saltare in aria nessun barile di polvere da sparo. Il mondo andrà avanti senza di me. Il mio corpo sarà per la putrefazione, resterà solamente lo scheletro; poi anche quello verrà levato dalla tomba e buttato in un anonimo ossario già pieno di milioni di altre ossa marcescenti.
Dovevo metterlo per iscritto che volevo essere cremato, le ceneri al vento e morta lì.
Sono in ritardo per tutto e sono già parte integrante del niente assoluto. Come se mai fossi esistito.