Penitenciaría de Santiago, Chile (© 2014 Valerio Bispuri)
Viaggio fotografico nelle carceri dell’America latinaL’opera di Valerio Bispuri ha avuto un forte impatto sociale. Alzando il velo su situazioni insostenibili ha fatto chiudere la ergognosa gabbia umana che era il padiglione 5 del carcere di Mendoza
di Gaetano ValliniNon è solo un libro di fotografie Encerrados. È uno squarcio sull’inferno: l’inferno delle carceri latinoamericane che inghiotte inesorabilmente nelle sue viscere migliaia di vite, uomini e donne privati non solo della libertà, ma anche della dignità. Il volume racconta infatti il lungo viaggio — dieci anni durante i quali ha visitato settantaquattro istituti di pena di molti Paesi del Sudamerica — che Valerio Bispuri ha intrapreso nel 2002 per documentare le condizioni inumane in cui sono costretti i detenuti. Una testimonianza in un livido bianco e nero, cruda, che colpisce come un pugno allo stomaco; una denuncia senza attenuanti di un sistema devastante in cui si annienta qualsiasi possibilità di riscatto, di reinserimento, di recupero sociale. Exigimos que se respeten nuestro derechos, si legge su un muro del cortile interno del carcere di Quito, in Ecuador. Sfogliando le pagine di Encerrados (Roma, Contrasto, 2014, pagine 143, euro 35) si comprende senza equivoci cosa c’è dietro quella semplice ma pressante richiesta, peraltro destinata a rimanere inascoltata. E guardando le immagini terribili di cortili che sembrano baraccopoli, di celle anguste affollate all’inverosimile (spazi per quattro dove si dorme anche in diciotto e più), luride, semidistrutte, con i muri scrostati, i pavimenti divelti, senza servizi igienici (i bagni sono buchi nei corridoi), infestate da topi e insetti, ma soprattutto osservando i volti, gli occhi di quanti vi sono rinchiusi — sguardi per lo più colmi di rabbia, di risentimento, di odio, di rassegnazione — si comprende perché Papa Francesco abbia così a cuore il problema delle carceri. Del resto alcune delle immagini più dure arrivano proprio da prigioni dell’Argentina, quelle di Buenos Aires e Mendoza.
Los Teques, Caracas, Venezuela (© 2009 Valerio Bispuri)
La macchina fotografica di Bispuri — romano, classe 1971 — ha documentato la vita nelle carceri più pericolose del continente, dall’Ecuador al Perú, dalla Bolivia al Cile, dall’Uruguay al Brasile, dalla Colombia al Venezuela. Lo ha fatto come se fossero un riflesso della società, specchio di quanto accade, dai piccoli drammi personali alle crisi economiche e sociali che colpiscono intere popolazioni. Non a caso lo scrittore Roberto Saviano nella prefazione al volume scrive che il reporter «ha fotografato prigionieri, ha fotografato celle, ma il suo obiettivo era su altro. Era sulla mancanza di libertà che spesso precede e segue la vita di chi finisce in prigione. La mancanza di libertà, e quindi di scelta, è ciò che ha condannato le migliaia di detenuti». Non solo. «Quelle di Bispuri — aggiunge — sono fotografie di città, carceri formicai, carceri dove chiunque è condannato, poliziotti e detenuti». Nel suo viaggio il fotografo si è imbattuto in realtà estreme, spesso al limite della sopravvivenza, soprattutto per il sovraffollamento e per la conseguente violenza legata alla droga e alla gestione del potere. A volte si formano bande armate di coltelli e pistole che si combattono sanguinosamente tra loro. Dentro alla prigione le regole sono le stesse di fuori: chi ha più soldi comanda. A volte più delle autorità. In Brasile, a Bangu 2 a Rio de Janeiro, pur avendo i permessi, per fare entrare Bispuri il direttore ha dovuto chiedere l’autorizzazione a un gruppo di detenuti che di fatto aveva il controllo del carcere. A Caracas, in Venezuela, il fotografo ha visto un muro crivellato di proiettili: i reclusi vi sparano contro, con armi che nessuno si azzarda a togliere loro, per festeggiare quando un capo torna in libertà. Nella Penitenciaría di Santiago del Cile ha trovato detenuti esasperati che durante l’ora d’aria si affrontavano con spadoni ricavati da vecchi tubi. I principali reati che riempiono le carceri sudamericane sono il traffico e lo spaccio di droga, «a testimoniare — sottolinea Saviano — quanto la repressione e il proibizionismo non siano stati la strada giusta, quanto le politiche repressive siano state fallimentari». Seguono truffe, omicidi, stupri, furti. Bispuri è stato anche in prigioni femminili, dove ha fotografato detenute che avevano ucciso i mariti, spesso ubriachi, per difendersi dalle loro aggressioni; madri che avevano assassinato i propri figli perché drogati e violenti, oppure perché esse stesse sotto l’effetto devastante di alcol o stupefacenti. Ma anche in questo degrado il fotografo si è imbattuto in momenti di apparente normalità, durante i quali si fa sport con attrezzi improbabili, o semplicemente si scherza. Ha visto donne truccarsi come se dovessero andare a ballare. Momenti in cui i detenuti si aggrappano a brandelli di umanità. «In dieci anni — racconta il fotoreporter — ho scoperto che esistono le celle di isolamento dove si può rimanere rinchiusi per oltre due mesi, che i bambini restano in cella con la madre fino ai quattro anni massimo e poi vengono strappati loro e dati in affidamento. Ma ho anche capito che la rabbia può essere un sentimento positivo e la solidarietà alla fine esiste anche nelle condizioni più estreme. Ricordo le sacche di urina che mi hanno tirato i detenuti arrabbiati a Quito, in Ecuador, ma anche il bacio rubato di una detenuta nella biblioteca di un carcere femminile, sempre in Ecuador. Non posso scordare la minaccia di un coltello puntato sul collo, ma anche il sorriso di un gruppo di ragazzi che mi ha aiutato a comprendere la loro terribile realtà. Non dimentico l’urlo di un ragazzo di Como, dentro per spaccio di cocaina, che mi ha salvato la vita avvisandomi di uscire immediatamente perché era pronta per me una siringa di sangue infetto». Di sicuro tra le tante cose che Bispuri non dimenticherà ci sono i detenuti rinchiusi nel padiglione numero 5 del carcere di Mendoza, destinato ai criminali più pericolosi; un luogo in cui nemmeno le guardie entravano. Vedendolo con macchina fotografica lo chiamarono. Volevano che documentasse la situazione disumana in cui erano costretti. Il fotografo chiese alla direzione di poter entrare. Ottenne il permesso, ma gli fu chiesto di firmare un documento in cui si assumeva tutta la responsabilità. Firmò ed entrò da solo, «il rumore della porta che si chiudeva alle mie spalle, le gambe che tremavano». Dentro trovò novanta detenuti tra i più pericolosi d’Argentina eppure nessuno lo toccò, anzi lo accolsero quasi con commozione, indicandogli cosa fotografare e facendosi promettere che avrebbe pubblicato quelle foto. Bispuri ha mantenuto la promessa. Qualche tempo dopo, quelle foto le ha esposte a Buenos Aires, mostrandone la vergogna agli argentini. E così, grazie al suo impegno e al sostegno di Amnesty lnternational, il Padiglione 5 di Mendoza è stato chiuso, trasformandosi da vergognosa gabbia per esseri umani disumanizzati in testimonianza della disumanità dello Stato e del suo fallimento. In questo senso il progetto Encerrados ha avuto un forte impatto sociale, alzando il velo su situazioni insostenibili. Ma resta soprattutto la rappresentazione di un universo reale, celato al mondo, eppure abitato da persone che non possono essere dimenticate. Un mondo in cui Bispuri, grazie alla sua sensibilità e capacità di empatia, ha trovato luci anche laddove tutto sembrava spento. Per ciò Encerrados è molto più di un semplice libro di fotografie. «Questa opera — scrive infatti Eduardo Galeano nel suo breve commento al volume — illumina con luce dolente la realtà delle carceri nella nostra terra latinoamericana, ed è a sua volta una metafora della vita di milioni di persone colpevoli di povertà e abbandono. Le fotografie penetrano tanto profondamente da sembrare radiografie. Grazie, Valerio, per aiutarci a vedere la nostra realtà più nascosta».(©L'Osservatore Romano – 3 febbraio 2015)