L’Europa non può permettersi di rinunciare all’energia nucleare, almeno per i prossimi quaranta anni. Le cosiddette fonti alternative rinnovabili – sole, aria, biomasse – non raggiungeranno un punto di sviluppo industriale tale da garantire loro la possibilità di prendere il posto del petrolio, del carbone e del nucleare prima del 2050: giocoforza, considerando che il petrolio è fuori gioco perché si sta velocemente esaurendo e i costi di estrazione aumentano in maniera esponenziale e il carbone, pur costando molto di meno, inquina anche molto di più di quanto ci possiamo permettere stante le attuali condizioni dell’ambiente in cui viviamo, tenerci ben stretto il nucleare, almeno finché solare, eolico e biomasse non avranno, appunto, raggiunto un livello di sviluppo sufficiente.
È l’opinione di Cello Osimani, responsabile dell’Unità per lo smantellamento e per la gestione dei siti nucleari nell’Unione Europea presso il Joint Research Center (JRC) dell’UE a Ispra, sulla sponda varesotta del lago Maggiore.
L’incontro è avvenuto nella sede JRC durante l’Open Day che ha portato qualcosa come dodicimila persone a visitare le strutture ed i laboratori del centro di ricerca. Un numero che fa ben sperare per la diffusione di una cultura scientifica in questo Paese, che ne ha tanto bisogno per combattere la paura delle tecnologia.
L’Unione Europea ha puntato sul decommissiong – lo smantellamento – delle centrali nucleari fin dall’inizio degli anni Ottanta. Ancora prima, quindi, dell’incidente di Chernobyl (1986) e del referendum che ha sancito l’uscita dell’Italia da questa forma di energia. Come produttore, almeno, perché per quanto riguarda l’approvvigionamento l’Italia ha fatto, fa e farà anche per i prossimi grande uso di energia di origine nucleare. Non dimentichiamo che l’Italia acquista grandi quantità di energia da Francia e Svizzera, che puntano molto su questa fonte energetica: la Confederazione per circa un quinto della sua produzione, il paese transalpino per qualcosa come il 75%, un record a livello mondiale. Se qualcuno avesse dubbi su quanta energia nucleare l’Italia usa, basta solo che dia un’occhiata alla disposizione delle centrali francesi: ce ne sono sei poste lungo la curva dell’arco alpino che fa da confine da Italia e Francia, non certo perché quei Dipartimenti ne abbiano bisogno, ma perché in questo modo il produttore (la Francia) è più vicino al consumatore (l’Italia). Con buona pace di chi non vuole le centrali in questo Paese…
Tornando al JRC, alla politica di decommissioning dell’Unione Europea e al Direttore Osimani, “a Ispra c’è ancora il reattore di ricerca che era stato fondato alla fine degli anni Sessanta, ai tempi in cui l’Italia era molto impegnata nella ricerca atomica”, ci racconta.
Oggi, questo reattore – pensato e costruito solo ed esclusivamente per a ricerca su materiali e carburanti nucleari – è spento. “Nel corso degli anni, dal 1983 ad oggi, il 90% del combustibile nucleare presente è stato trattato per renderlo inerte oppure venduto ad altri paesi in grado di trattarlo per riciclarlo nelle loro centrali atomiche”.
Ad acquistare il nostro carburante nucleare non più utilizzato sono stati Francia e Stati Uniti: i primi perché hanno bisogno di alimentare le loro 56 centrali nucleari, e l’uranio nuovo costa troppo; i secondi perché fin dall’incidente di Three Mile Island (1979) hanno rinunciato a costruire nuove centrali. Tranne, poi, estendere la vita delle centrali esistenti. “Di fatto, con lo stratagemma delle estensioni si sono procurati una centrale nuova ogni cinque”, ammette il direttore dell’unità di Ispra.
L’Europa è arrivata ad utilizzare la strategia dell’estensione solo ultimamente, con Francia, Germania e anche altri paesi UE che hanno allungato i tempi di di vita utile delle centrali anche di venti o trenta anni. Costa meno ed è più veloce che progettare e costruire una centrale nuova.
L’incidente di Fukushima ha costretto l’Unione Europea e tutti i Paesi che dispongono di nucleare, così come quelli che progettavano di tornare a questa forma di energia, come l’Italia, a rivedere i propri piani. Politicamente non è il momento di affrontare un’opinione pubblica terrorizzata da quanto successo in Giappone, mentre dal punto di vista tecnico occorre che gli specialisti abbiano il tempo di digerire gli insegnamenti di Fukushima per adottarli nei progetti in corso.
“Gli stress test che la Commissione Europea ha lanciato servono a verificare lo stato di ciascun reattore presente nei 14 Stati membri che dispongono di centrali nucleari, affinché sia loro che gli altri Stati membri che hanno in corso studi e progetti per il nucleare possano tenerne conto”, ammette il dottor Osimani.
Ancora non c’è un accordo su questi test, sui loro contenuti e sulle disposizioni che li accompagneranno: cosa succederà, per esempio, a quei reattori che dovessero essere bocciati?
“Il significato dei colloqui tra Commissione Europea e singoli Stati membri in merito agli stress test è proprio questo: ogni Paese deve presentare le proprie considerazioni e la propria situazione energetica”.
Sicurezza prima di tutto: delle persone – “Chi lavora nelle centrali e chi vive vicino ad esse va tutelato, questo è il nostro principio guida” – ma anche del sistema economico europeo, che ancora per anni non potrà fare a meno dell’energia dell’atomo. Ecco a cosa mirano gli stress test ed il dibattito in corso in tutta Europa. Un messaggio che, per raggiungere il grande pubblico, ha bisogno di viaggiare insieme ad una maggiore e più approfondita conoscenza delle materie scientifiche. Quello che iniziative come il JRC Open Day vogliono fare.
Franco Cavalleri
FONTE: http://www.nucleareblog.it/2011/05/16/energia-nucleare-i-perche-di-un-si/