Allora mi si sono risvegliati i neuroni e ho cominciato a prestare orecchio alla cacofonia di lingue diverse che mi circondava: inglese, cinese, spagnolo, italiano...e la cosa che mi affascinava era che dell'italiano avevo riconsciuto immediatamente l'accento, come se fosse un riflesso condizionato, mentre a parte l'inglese, di cui posso riconoscere alcuni accenti a grandi linee, delle altre lingue non avevo idea.
In tutto questo mi sono sentita contenta, come se fossi a casa mia, in veranda, avvolta in una grande coperta patchwork, fatta di tessuti e di consistenze diverse, ricamata in stili e fantasie diversi, alcuni familiari, altri completamente irriconoscibili.
Una coperta sterminata, che si avvolge intorno al mio corpo e si estende oltre, col suo intrecco di fili inestricabili: quelli di lana ruvida e frusciante come l'olandese, quelli di filo metallico e scintillante come il tedesco, quelli di caramello abbrustolito come il francese, quelli di lino bianco e immacolato come il russo, quelli di seta fresca e scintillante come il cinese, quelli di quelli di pelle spessa e profumata dell'arabo, quelli di capelli corvini e dispettosi dello spagnolo....e poi c'erano l'inglese e l'italiano, ma quelli mi sono, a modo loro, troppo familiari per poterli definire.
E tutti questi fili si dipanavano oltre, in un infinito intreccio di trame misteriose delle quali volevo far parte anche per un solo istante. Perche' io non ho mai saputo resistere al fascino di una lingua sconosciuta, delle inflessioni insaspettate, delle cantilene esotiche, dei territori a me ignari e inseplorati, con i loro picchi e le loro valli, i loro tornanti e le loro bizzarre stratificazioni.
A suo tempo, 13 anni fa, Dear Husband mi tese uno di questi fili, ed io non seppi resistere.
Non seppi resistere a quell'accento sconosciuto, a quelle espressioni inedite, a quei vuoti nelle sue frasi che dovevo colmare con la mia immginazione, visto il mio vocabolario al tempo ancora scarno. Era come se mi stesse raccontando una storia vagamente familiare, ma la sapesse intrecciare in un modo completamente diverso, sorprendente, e affascinante.
E questo mi faceva sentire come oggi, in quel corridoio di voci, avvolta in quel pezzo di mondo del quale non potevo che afferrare un lembo, uno stralcio di conversazione sospesa nell'aria, una certezza subito evaporata nell'aria.
Certo, ora che capisco tutto quello che mi dice, la magia un po' e' sparita (d'altra parte Dear Husband me lo dice sempre, con aria sdegnosa e rimproverante, che sono una cinica incorreggibile). Ma non e' questo il punto.
Il punto e' che mi manchera' questo intreccio di suoni, questa musica improvvisata che si rinnova ogni volta diversa, ogni volta familiare ma estranea allo stesso tempo.
Mi mancheranno pure le parole di questi luoghi. Mi mancheranno le varie Citta' delle Api (Beeston), i Campi di Segale (Rylands), i vicoli di Londra che si chiamano Scuderie (mews), e of course, anche il quartiere di Sherwood, ora un misto curioso di viali alberati, ristoranti etnici, murales e case popolari.
Mi mancheranno le bizzarrie della pronuncia inglese, soprattutto quelle straniere altisonanti, con le quali l'inglese si arrabatta come meglio puo', come un orso bendato ignaro del fatto che si sta aggirando tra cristalli preziosi e antichi:
i focai (foci),
i prinkipia (principia),
i modus operandai (modus operandi).
Ma anche quelle di uso comune, che l'inglese raffazzona come un cuoco ingenuo e maldestro:
il TiramI'su,
gli spaGEtti,
la lasagnA,
i GNoccI (con la g dura),
le cene Al Fresco (che a casa mia vuol dire "in prigione").
E poi mi mancheranno le prime espressioni che imparai quando arrivai qui, quasi 8 anni fa:
il pretenzioso preposterous (assurdo, grottesco), da pronunciare sillabando bene le p, come se ti venisse da sputare in un occhio al tuo interlocutore,
il roboante outrageous (oltraggioso),
il fumettoso pearshaped (una faccenda andata male)
E mi mancherano anche tutti i termini medici, si anche quelli, che ho assorbito durante questo nostro viaggio tra IUI e FIVET:
il theatre per dire la sala operatoria (eggia', perche' in effetti io sono li, tutta smutandata, e sono in molti a fare da spettatori)
la PMA, che in inglese non sta per Procreazione Medicalmente Assistita, ma per Positive Mental Attitude :-)
i consultants, che mi sembra un modo meno intimidatorio di dire dottori
...e potrei continuare, ma e' ora di preparare la cena.
Questa sera siamo solo io e Picco, che nonostante sia fonte di preoccupazioni e ansie, nonostante giochi a nascondino con i sintomi, nonostante ancora non si decida a regalarmi un bel paio di tette nuove, nonostante ci faccia maramao quando l'ecografista cerca di misurarlo (ti prego, Picco, cerca di non avere la sindorme Down)...nonostante tutto, almeno lui non si lamenta della mia cucina vegetariana.
[Piccola Parentesi]
Per la cronaca, l'altra sera Dear Husband, stava impacchettando delle cose sue, per il trasloco (ormai siamo in piena frenesia da trasloco), era gia' passata ora di cena da un bel po', e stremato mi dice, con il suo tipico aplomb inglese (quello invece me lo tirero' dietro fino al borgo pedemontano):
"Non e' che potresti cucinare qualcosa che posso mangiare anch'io?"
O_o
Nel senso, io non posso mangiare la carne che mangia lui, per ovvi motivi (sono vegetariana), ma lui non mi sembra che sia impossibilitato a mangiare le cose vegetariane che cucino io, no?
Certo, la mia frittata ai pisellini dell'altra sera non sara' stata esattamente un'orgia culinaria, ma neanche il pastone del cane, mi pare. O no?
Comunque ho capito dai vostri commenti che non sono l'unica ad affrontare certe questioni.
Solidarieta' culinaria, donnine mie!
Buon week end estateggiante a tutte voi!!!