Ennio AbateLa mia giovane sposa feriale

Da Ennioabate

Tabea Nineo, Volto femminile, 1963

da Reliquario di gioventù, inediti in lavorazione

*

smetta i suoi occhialini di bontà
m’osservi bene
mangio la mela che lei ruba per me
da una mensa aziendale
neppure i piccioni si scansano se passo
medito il grande ideale nelle latrine
qui sul fondo del bidone metropolitano
per noi due manco un’animella tagliuzzata c’è

*

nere vedove picchiettarono i tuoi denti
con bianco guano di colombi d’aia

magri contadini falciarono raggi al sole
e tristezze alla luna
le rondini postali tradussero a destra e a manca
inviti augurali

e tu mia giovane sposa di bianco affrescata
piroettasti con me giù dall’altare

*
eh sì, per distrazione
(ma dai)
ci siamo sposati
studenti gocciolanti
d’immigrazione
dietro belle cose incamminati
e proprio in chiesa frettolosi e affannati

t’avevo conosciuta così per caso
ardita e spaurita
m’andavi

ti tolsi gli occhiali da miope
la camiciola con l’unto
la mutanda con l’elastico allentato
m’andavi

sceglievi un abito
che in vetrina luccicava
poi per le vie sgomentavi
eppure m’andavi
eri bella quanto mi bastava

perciò ci sposammo pure
e subito facemmo all’amore
in uno stambugio affittato
casa di corte a Milano
in via Adriano
con annessi basilico e gerani
la vecchia un ubriaco
e il rumore dei tram ma lontani

quelli sì ch’erano giorni buoni
ci colavano sciocche
le parole d’amore

e poi vivemmo così
un po’ già spezzati
in stanze a zig-zag
una in ombra marina
l’altra tutta luce invernale
tu in una ridevi
piangevi nell’altra
ma sempre avevi stupori nei seni

*

Narratorio

Così – per metà sotterrato dentro l’orcio del tempo antico – era Vulisse da giovane.  Leccava il corpo di Venere nuda e sudata distesa sul fieno d’agosto. E assieme ad altri maschi rapaci sognava d’aprire donne-noci avvolte in verde mallo. Ma  l’altra sua metà era nei campi cintati dell’infanzia campagnola e negli orti d’approssimazione della mala adolescenza. E perciò temeva e cercava le cupe ferite celate nei corpi delle donne. Anche quelle che sorridevano senza malizia gli facevano chinare il capo e muggire tremante il suo desiderio.

“Se zitto giungessi ai filari dei pomodori rosso sangue del dopoguerra, al vicolo della varechina, al primo sapore di latte mattutino meglio le amerei”,  si diceva. Ma quale donna poteva accompagnarlo a raccogliere mastelli di pioggia o andare con lui a contare i galli?

Poi, in vicoli bui, cominciò a baciare la prima fanciulla-albicocca, mentre miserere s’udivano venire da chiese in penombra. E d’una signorina spirituale, vestita di bianco come le tende sulle soglie di case  al Sud, assaggiò solo la vainiglia delle labbra.  Fragile era il sorriso di lei. Da pullman affollato. Non le rubò né sfiorò, come desiderava, il grembo. E se ne andò.

Incontrò poi quella che non lo capiva, l’amava e aveva fredde le mani. Lei canterellava distratta sulla panchina macchiata di sole. Passeggiarono abbracciati tra palazzi antichi e villette profumate dai glicini. Si baciarono per strada  in mezzo ai girotondi di studentesse in grembiuli alteri. Quando lei su un muretto dondolava i suoi piedi sgominati dal freddo, lui  curava ogni suo dondolio.  E l’inseguiva al tavolino di un bar se irata, assorta o triste si sedeva.

Ah, La bevitrice di assenzio di Toulouse-Lautrec! Pensatrice a gomiti stretti era  pure questa, che nei suoi sorrisi da labirinto arrotolava una sua benda d’alcool e veleni. In tanti incontri furtivi che fare di tutte le sementi partorite dai loro silenzi? Una sera la carezzò e vendemmiò in un attimo tutta l’uva di settembre che lei gli aveva portato in regalo. Una pioggia scandì il loro batticuore sui pampini spogli.

Allora un mondo morto ripresentò le stesse candele di sempre. E gli sibilò: “Accendile ancora! Se no scenderai sottoterra, sotto polvere, sott’aceto!”. E quando, assennata, una pendola mandò i dodici singhiozzi della mezzanotte, lei batté dodici volte le ciglia. Poi mise in bocca una liquirizia e scappò via.

Vulisse avvertì l’arruginirsi del tempo. Picchiò sulla figurina femminile che s’allontananava. Picchiò sui neon di strada, come  suicida falena. Invano. Non sapeva più dov’era scesa la collana di amore e dolore che lei gli aveva lasciato. Nel fondo di un’ignota storia? Nella cisterna lucente sotto la luna  fra i noci e le foglie marce del suo paese, dove adolescente aveva sognato solo quella d’amore? Impossibile ora tirarla più su con una semplice carrucola di baci e carezze.

['64 - marzo 2014]


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