Titolo: Enon
Autore: Paul Harding
Editore: Neri Pozza
Anno: 2013
Ma è una maledizione, una condanna, quasi un atto di provocazione, venire risvegliati dal proprio stato di non essere, evocati da una massa di terra e fieno, accesi come una fiamma e spediti a barcollare in mezzo ai sassi e alle ossa di questa terra, tra pianti preoccupazioni e rovine, con niente su cui riflettere che non sia l’imminente ritorno nell’oblio, costretti a inventarci sperane tanto artificiose quanto ingannevoli e prive di fondamento, destinate a bruciarsi nel momento stesso in cui trovano un qualcuno o un qualcosa cui rivolgersi se non prima ancora, valide come verità solo quando le inventiamo per noi stessi o le raccontiamo ad altri intorno a un fuoco, o dentro una stamberga, mentre tutti noi crepiamo di freddo o di fame, complottiamo, contempliamo slealtà, tradimenti, omicidi o la disperazione insita in ogni amore; o concepiamo delle figlie, ci rallegriamo dei loro successi in modo che, quando ci vengono tolte, la disperazione possa sgorgare ancor più copiosa dai nostri cuori, creati solo per essere infranti. E non esiste maledizione peggiore, perché i cuori infranti continuano a battere.
Paul Harding esordisce nel 2009 con il romanzo L’ultimo inverno, primo tassello di una trilogia che ha in Enon il suo seguito. Vincitore del Premio Pulitzer nel 2010, in questo suo secondo libro Harding racconta la storia di Charlie, discendente della famiglia Crosby, che a differenza dello stuolo dei suoi antenati, mercanti ed esperti di orologi, si ritrova a essere un semplice giardiniere, a vivere in una casa mediocre e senza particolari prospettive per il futuro. L’unica gioia della sua vita è la figlia tredicenne Kate, con la quale condivide momenti speciali che lo riportano alla sua infanzia, come recarsi nei boschi e offrire semi di papavero agli uccellini, oppure andare in bicicletta per ore. Il legame tra Kate e suo padre tiene in piedi l’intera famiglia, perché l’amore di entrambi i genitori per l’unica figlia è così forte che anche i loro litigi passano immediatamente in secondo piano, perdendo importanza in confronto al benessere di Kate.
Purtroppo un giorno la tragedia irrompe nella tranquilla vita di Charlie: poco dopo il tredicesimo compleanno di Kate, la ragazza viene travolta da un’auto mentre sta facendo una gita in bici con la sua migliore amica e muore sul colpo. Da quell’istante, gli avvenimenti si succedono sotto gli occhi del lettore come se Charlie, invece che viverli coscientemente, si limitasse a fornirne una cronaca molto succinta, intervallata a profondi sfoghi emotivi che descrivono sapientemente le varie fasi del lutto. Il protagonista del romanzo di Harding non è un uomo ma è il suo dolore, un dolore di tipo così profondo e aggressivo che toglie il fiato anche a chi legge, il quale può solo cercare di girare le pagine il più in fretta possibile per sperare di scorgere una via d’uscita. La morte di Kate porta Charlie a scostarsi sempre più dal mondo esterno per concentrarsi sulla propria sofferenza che di giorno in giorno assume tratti sempre più mostruosi e si trasforma in autolesione, trascinando il padre di Kate a imbottirsi di farmaci e alcool per cercare di mettere a tacere i propri pensieri. Charlie si rompe una mano dando un pugno contro il muro appena prima che la moglie lo lasci, e all’ospedale gli danno degli antidolorifici molto potenti; ben presto si ritrova a far visita a tutti gli ospedali della contea per cercare di ottenere altre pillole. Gli unici momenti in cui esce di casa sono per andare a comprare sigarette e wisky, oppure di notte, quando vaga come un sonnambulo in cerca della sua Kate, terminando i suoi pellegrinaggi nel cimitero del paese, dove però si rende conto del suo stato e si nasconde alla vista della tomba della figlia.
Una vicenda spaventosamente reale che ricorda il valore della vita e di ogni suo singolo istante, raccontando il lungo e faticoso viaggio di Charlie verso la rinascita, che arriva proprio quando non si aspetta più, gettando dei semi di speranza su un terreno che fino a quel momento si credeva incapace di produrre frutti. Una storia amara ma dal retrogusto familiare, che riporta alla mente quello che spesso tutti noi cerchiamo di dimenticare.