Non fa eccezione Epistemology of the Closet, comprensibilmente ancora non tradotto in italiano, il cui titolo potrebbe essere “Epistemologia della vergogna” più che dell’armadio.
L’autrice Eve Kosofsky Sedgwick, dopo un’introduzione di “appena” 63 pagine in cui ci rivela gli assiomi che le serviranno nel resto del libro (e che a mio parere potete tranquillamente saltare per andare alla ciccia successiva) se la prende anzitutto con il modo di ragionare per opposizioni binarie, un metodo che non la convince nemmeno un po’ perché secondo lei limita la libertà di comprensione soprattutto quando si parla di sessualità e di orientamenti sessuali. Le opposizioni binarie sono proprio la bestia nera di ogni appartenente alla queer theory che si rispetti, come vedete anche dalla foto che adorna questo post. Premesso che i ragionamenti per opposizioni binarie non mi sono affatto simpatici, va anche detto che a me non pare che questo modo di pensare sia poi così frequente nei testi di sociologia o di critica letteraria, fatta eccezione per i seguaci dello strutturalismo saussuriano. Forse un po’ più frequenti nei testi di filosofia, ma tant’è. A ogni conto, le opposizioni binarie contestate dall’autrice sono: secrecy/disclosure, private/public, masculine/feminine, majority/minority, innocence/initiation, natural/artificial, new/old, growth/decadence, urbane/provincial, health/illness, same/different, cognition/paranoia, art/kitsch, sincerity/sentimentality e voluntarity/addiction. Fin qui tutto bene, anche se a mio modestissimo parere alcune di quelle opposizioni binarie sono ricche di senso e di significato, per esempio urbano/provinciale, o arte/kitsch, o nuovo/vecchio, o privato/pubblico.
Il linguaggio è, secondo l’autrice, la forza principale dietro alla sessualità, a tal punto da essere in grado di definirla. Di più, per la Sedgwick l’omosessualità è SOLO un atto di linguaggio. Vale a dire che secondo lei uno è veramente omosessuale solo se DICHIARA pubblicamente di esserlo, magari partecipando ai gay pride della propria nazione. A me questa posizione non convince, perché penso che l’atto di dichiarare pubblicamente il proprio orientamento sessuale sia un CONDIVISIBILISSIMO e AUSPICABILE atto politico-culturale ma non un atto ontologico. Anche perché pure un eterosessuale potrebbe dichiarare di essere omosessuale in pubblico (per qualunque ragione) eppure rimarrebbe sempre eterosessuale nel momento in cui non pratichi e non desideri avere sesso con una persona del proprio genere. Detto in altre parole: tu puoi anche andare in giro a dire di far l’amore con i venusiani, ma se poi nella pratica non lo fai, il fatto di dichiararlo non è sufficiente a renderti un vensuiansessuale… insomma siamo al proverbio “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare” e non mi pare che la Sedgwick riesca a convincerci del contrario. Reitero: con questo non voglio dire che “dichiararsi” o “dire di sé” sia un gesto inutile o sbagliato, per carità. Solo non è un atto ontologico, non è un atto sufficiente a essere omosessuali, ma al limite solo a essere creduti omosessuali, che è una cosa diversa, e poi non è nemmeno tanto sicuro che sia così, perché la gente sa interpretare anche al di là di ciò che viene dichiarato.
Ma in generale sono poco in accordo con la Sedgwick fin dalla pagina 1 del suo testo, là dove sostiene che “many of the major nodes of thought and knowledge in twentieth-century Western culture as a whole are structured—indeed fractured—by the now endemic crisis of homo/heterosexual definition, indicatively male, dating from the end of the nineteenth century” (p.1). A me non pare che sia vero: non credo che i principali nodi del pensiero e della conoscenza dipendano dalla frattura fra omosessuale ed eterosessuale, mi pare un modo di vedere limitativo non solo troppo sessuocentrico, ma anche troppo incentrato sulla differenza di orientamento sessuale.