“mio carissimo Vatinka…
la prospettiva di ciò che mi attende è talmente cupa, che il vivere il resto della mia vita significherebbe più dolore di quello che potrei mai sopportare. È una vita di solitudine e di dipendenza. Dipendenza da una ragazza alla pari per le cure di Shura e dai miei datori di lavoro, un’agenzia pubblicitaria di terza categoria pronta a licenziarmi in caso di malattia. Nessun marito. Nessun padre per Shura. Ho spesso contemplato il suicidio, ma nel passato, la pena che questo ti avrebbe arrecato, e il crimine che avrei commesso nei confronti di Shura, mi hanno fatta desistere all’ultimo momento. Ho sognato di vivere con Ted e questo sogno è finito. I motivi ora non hanno più valore. Non ci potrebbe mai essere un altro uomo. Mai. Ti assicuro, carissimo Vatinka… non avresti potuto augurarmi altri trent’anni di questa vita, non credi?…. Grazie per tutto l’amore che mi hai sempre dimostrato. Ti ho amato tantissimo, non disperarti per me. Credimi, ho fatto la cosa più giusta… La vita sarebbe stata infinitamente, infinitamente peggiore. Ho vissuto abbastanza a lungo. È necessario capire quando non c’è più motivo per continuare… Ti prego, non pensare che la mia sia pazzia, che abbia fatto questo in un momento di pura follia. I conti sono semplici e tornano. E non avrei potuto abbandonare Shura lasciandola da sola. È troppo grande per essere adottata.
Arrivederci, Lonya, padre mio, mio protettore. Mi manchi moltissimo.
Arrivederci amatissimo papà.”
Trascina un materasso in cucina/ci mette a dormire sua figlia/sigilla porta e finestra/ingoia acqua di sonniferi/apre il gas poi il forno/aspetta la morte/la loro/insieme.
Era il 23 marzo 1969 e Assia lasciava due lettere a sigillare un suicidio, il suo. Una per suo padre e l’altra, che mai fu ritrovata, per Ted Hughes. Voglio raccontarvi questa storia, con tutto l’intimo senso che comporta. Non è per chiacchierare della vita di qualcuno fin troppo chiacchierato, nemmeno per impietosire quanti l’avranno pensata sempre e solo come colei che spinse “l’immensa” Sylvia Plath a morire dopo essersi scopata suo marito. Più semplicemente, voglio raccontarvi questa storia…
Una giovane donna cresceva a Tel Aviv figlia di un medico ebreo, in fuga come tanti dopo quella guerra di persecuzioni. Arrivò a Londra, tenendosi stretta tra le dita la fuga. Era piena di fascino, elegante, femminile. Di quelle donne che forse giustamente non dovrebbero invecchiare mai. Aveva sposato nel 1960 un canadese, più giovane di lei. Un uomo d’intelletto, un poeta, con il quale Assia si avvicinò ai caffè letterari, conobbe altri poeti, sfamò il suo bisogno di mondanità. Era un’estroversa e lui era David Wevill. I due – come capita alle migliori famiglie – affittarono una casa a Chalcot Road, da una coppia di proprietari che avevano deciso di trasferirsi nel Devon.
Tra casualità, cortesia, gesti dapprima formali e poi amicali David e Assia/Sylvia e Ted iniziarono a frequentarsi. Finché il destino fece il resto. Almeno così direbbe Hughes, convinto sostenitore della fatalità. Io credo piuttosto che successe quello che succede a tante vite. Ted forse stanco dall’impegno di una donna vittima di se stessa trovò in Assia l’aria mentre stava soffocando o magari, semplicemente sfamò ancora di più il suo bisogno di essere a tutti i costi indispensabile per qualcuno. Era successo per Sylvia – per assurdo anche dopo la sua morte – ora succedeva ad Assia. Hughes dal profilo di squalo. Il marito e poi l’amante. Poeta rampante della sua generazione inglese e discretamente piacente.
Spesso ho letto di lui. Innamorato della vita. Spesso ho letto di lei. Sylvia che scelse di evaporare nel gas e “Sembrava un’invalida, tanto era priva di protezioni interiori”. Questa storia di loro è stata raccontata tante volte. E Assia? Dov’è quella donna che chiese di esser sepolta in un cimitero di campagna e invece fu cremata insieme a sua figlia? Sparsa chissà dove da quel padre/uomo/amore assente. Quasi a volerne negare anche l’ultimo desiderio.
“Non la trovammo noi – fu lei che ci trovò.
Ci scovò a fiuto. Il Destino che portava
ci scovò
e ci riunì, ingredienti inerti
per il suo esperimento.
La Favola che portava
requisì te, me e lei,
marionette per la sua rappresentazione.”
Vissero da amanti Assia e Ted e dopo la morte di quella moglie che gli lasciava due figli, andarono a vivere nella casa acquistata nel Devon. In quella piccola comunità fatta di giudizi iniziarono le insicurezze e il loro sordo tonfo nella testa di una donna che in fondo non era mai stata scelta. Assia cresceva i figli di Sylvia, dopo aver abortito un figlio suo. Assia si inventava moglie senza però esserlo, la divorava quel confronto di forzata assenza. “Sylvia mi sta crescendo dentro, enorme, magnifica. E io mi sto seccando, rimpicciolendo. Entrambi [Sylvia e Ted] mi finiscono a morsi. Si nutrono di me”
Nacque Alexandra Tatiana Eloise nel 1965, figlia loro. Finalmente Ted e Assia esistevano in qualcosa di grande, condividevano due occhi che tutti chiamavano “Shura”. Ma nemmeno in questo che sembrava un gesto d’amore Assia si pacificò. Forse perché ormai ossessionata o forse perché quell’uomo per il quale viveva continuava ad esistere ovunque meno che al suo fianco: “Prima di tutto il resto c’è Sylvia, e dopo di lei, il Grande Schema, il Genio, i suoi bambini, e l’immobilità del sole, i milioni di falchi e pesci, e l’ombra della notte che io non posso vedere, né sentire…”
Vivevano in quella casa senza appartenenza e l’ostilità di tutti era chiara. I genitori di Ted non le volevano nemmeno parlare, e certo lui non si preoccupava di difenderla e di difenderli. Successe allora che l’incapace di responsabilità, quello impegnato a sfamare la creatività più che la vita vera invitò Assia ad andarsene. La caccio, come si caccia un chiodo dal muro. In pochi giorni lei e sua figlia si ritrovarono sole in una Londra con le fauci aperte. Divorate. Non aveva un lavoro, faticò per ritrovarne uno. Non aveva l’uomo che dannatamente amava. Era piena di disperazione Assia…
“Ti scrivo dall’esofago, dalla mia gola e dalla mia enorme, sempre aperta ferita. Scrivo alle tue mani grandi, alla pura bellezza all’interno dei tuoi polsi, ai tuoi occhi dei momenti felici. Non ti scrivo dal cervello, ma da sotto il mio esofago. Voglio sapere se vuoi riparare le cose fra noi perché mi ami ancora, perché senti ancora quella forza primitiva che ci unisce…. o se mi vuoi solo come istitutrice per aiutarti a crescere i tuoi figli. Ho ancora la forte speranza che ci si possa costruire una vita felice, piena d’amore. So di amarti ancora con la mia testa, e il mio corpo e la mia vita, mio adorato Ted. Apriti, apriti a me come facevi un tempo. E insieme a te fiorirò di nuovo, e potrò prendermi cura di te, darti tutto quello che ho… Fino ad oggi, tutti, tranne te, hanno dettato legge sulla nostra vita. Abbiamo bisogno di stare per conto nostro… Sento così tanto amore per te, per la tua parte migliore. Ti ammiro e ho paura di te, del potere che eserciti su di me. Nessun altro uomo ha avuto tanto potere sulla donna che è in me. Contraccambia questo mio amore e, se non ne sei capace, allora dimmelo, lasciami andare con quel poco di pace che saprò salvare.”
Io non so se esistano vittime e carnefici, né so quale sia stato intimamente il reale vivere dei protagonisti di questa assurda storia, però so che lei tra di loro è quella che più mi ha commosso. Non era una poetessa Assia, non riusciva a maledirsi in una vita così tanto da nutrirsi di pianto. So solo che lei in qualche modo mi trema dentro. Io donna. Finì in quel giorno di marzo, carnefice/vittima di se stessa consapevolmente… e la penso sorridere mentre sceglie il gas, ancora una volta come Sylvia, la penso scrivere in quella lettera mai ritrovata a Ted senza: più amore ne odio.